“Se si vuole cambiare l’andazzo – è una delle frasi-chiave delle più recenti esternazioni di Carlo Bonomi, neo presidente della Confindustria, rilasciata in occasione degli Stati generali dell’economia – allora bisogna cambiare anche il metodo di lavoro. Bisogna tornare alla concertazione governo-parti sociali come ai tempi del governo Ciampi, affinché le decisioni siano prese solo dopo aver consultato chi quelle decisioni poi deve attuarle”. Per comprendere meglio il pensiero di Bonomi e il retroterra che lo ispira, occorre leggere la prefazione del Piano Italia 2030, proposte per lo sviluppo, superando la sorpresa di trovarsi in presenza di un vero e proprio libro contenente dei saggi di valenti economisti: una sorta di Piano Colao più affollato, ma frutto anch’esso di un appalto all’elaborazione altrui. Comunque sia, nelle pagine a sua firma, Bonomi lancia l’idea di “una grande alleanza pubblico-privato su cui il decisore politico non ha delega insindacabile per mandato elettorale, ma con cui esso dialoga incessantemente attraverso le rappresentanze del mondo dell’impresa, del lavoro, delle professioni, del terzo settore, della ricerca e della cultura”. A questo punto, il lettore nota che al presidente è venuto il dubbio di essersi spinto troppo in là; e si è sentito in dovere di immediate precisazioni. “Nessuna volontà di chiedere una “terza camera” ma solo la certezza di essere ascoltati. E questo – lamenta Bonomi – durante la gestazione dei primi due decreti per dare ossigeno all’economia non sempre è avvenuto”. Queste procedure, ereditate dal passato, si mostrano con un biglietto da visita nuovo: non si chiamano più “concertazione”, ma “democrazia negoziale”. Intanto l’indicazione vale come legittima pretesa della più importante associazione datoriale di non essere esclusa dai tavoli del confronto dove da tempo vengono ammessi solo i sindacati. Leggendo quel brano mi sono chiesto per quali motivi ogni volta che si evoca un’esperienza di concertazione si torna al Protocollo del 23 luglio 1993, stipulato sotto la regia del governo Ciampi, negli ultimi mesi precedenti la fine della Prima Repubblica. Eppure quell’intesa non sarebbe mai stata possibile senza l’accordo imposto dal governo Amato, un anno prima, che ottenne la firma di tutte le organizzazioni socio-economiche, compresa la Cgil (sia pure attraverso lo psicodramma delle dimissioni di Bruno Trentin che – nessuno, neppure la versione contenuta nei suoi diari mi ha persuaso del contrario – furono da lui messe in scena per gabbare e depistare il veto di Achille Occhetto contro qualsiasi intesa con il governo degli “inquisiti”. Ma il “buco” nell’architettura della contrattazione collettiva lo creò Amato, bloccando per un certo periodo la contrattazione articolata ed abolendo la “scala mobile” che era riuscita a sopravvivere fino ad allora, in varie forme, dopo lo scossone del decreto del 14 febbraio 1984, confermato dalla bocciatura di un referendum abrogativo l’anno dopo (chi volesse approfondire potrebbe leggere un libro pubblicato postumo,, di Pierre Carniti, il vero vincitore di quella battaglia, il cui esito cambiò, insieme alle relazioni industriali, la storia politica del Paese). A Ciampi (e al suo ministro del Lavoro Gino Giugni) toccò il compito di ridefinire i livelli di contrattazione, attribuendo delle funzioni a ciascuno di essi, con la logica del nel senso che la stessa materia non poteva essere rinegoziata “in altra sede” – e con l’obiettivo di impostare, come avvenne, una politica salariale in grado di favorire il rientro dall’inflazione in vista degli adempimenti europei (era il tempo degli Accordi di Maastricht). Tuttavia, l’Accordo del 1992 è rimasto segnato nell’elenco dei cattivi e meno se ne parla meglio è, perché in certi settori del sindacato e della politica si ammettono solo i piccoli errori, non quelli grandi, peraltro già evidenti quando furono compiuti. Ma c’è un altro accordo, stipulato con il metodo della concertazione dal solo governo che, nella storia d’Italia, ha avuto un premier ex comunista: Massimo D’Alema. Mi riferisco al Patto di Natale del 1998. Il governo lo sottopose persino ad un voto del Parlamento, ma presto si rivelò del tutto inutile e propagandistico. La ragione del fallimento era già scritta nei contenuti del Patto. E stava in quella “piccola differenza” che lo distingueva dal Protocollo del 1993, il quale, attraverso la razionalizzazione dei livelli di contrattazione e l’adozione, in pratica, di una politica dei redditi, contribuiva a raggiungere un preciso approdo politico in direzione di una maggiore integrazione europea. Poi intorno c’erano le solite promesse e giaculatorie che facevano da cornice ed indoravano la pillola. Il Patto di Natale era invece un elenco di impegni (appunto, promesse e giaculatorie) che il governo prendeva con le parti sociali, le quali, però, non avevano messo nulla in cambio (se non una firma come sostegno politico del governo che era subentrato sbrigativamente al primo esecutivo presieduto da Romano Prodi). Il tentativo di riformare l’assetto della contrattazione collettiva (anche sulla base delle indicazioni della commissione Giugni del 1997) era stato stoppato dalla Cgil. La domanda da fare oggi a sindacati e a Confindustria viene da sé: che cosa avete, di vostra competenza, da mettere sul tavolo di un negoziato triangolare? La linea di condotta – se si vuole agire nell’interesse del Paese – è tracciata niente meno che dal Governatore Ignazio Visco nelle sue Considerazioni finali: “Per riportare la dinamica del prodotto intorno all’1,5 per cento (il valore medio annuo registrato nei dieci anni precedenti la crisi finanziaria globale) servirà un incremento medio della produttività del lavoro di poco meno di un punto percentuale all’anno. Questo obiettivo – ha proseguito Visco – richiede un forte aumento dell’accumulazione di capitale, fisico e immateriale, e una crescita dell’efficienza produttiva non dissimile da quella osservata negli altri principali paesi europei. Conseguirlo presuppone comunque una rottura rispetto all’esperienza storica più recente, richiede che vengano sciolti quei nodi strutturali che per troppo tempo non siamo stati capaci di allentare e che hanno assunto un peso crescente nel nuovo contesto tecnologico e di integrazione internazionale”. C’è dunque materia, per le parti sociali, da affrontare non solo sul piano della contrattazione di prossimità ora negletta (orari, organizzazione del lavoro, formazione, ecc.), ma anche su quello degli investimenti. Comincino le parti sociali ad assumere iniziative e a realizzare obiettivi specifici su questo terreno. E non pensino che basti mettersi d’accordo tra di loro su come spartirsi la torta che “viene dal freddo”, con tanti miliardi al posto dei canditi. Come il Protocollo del 1993 fu decisivo per combattere l’inflazione, quello del 2020, se ci sarà, dovrebbe servire a migliorare la qualità del lavoro e della produzione, a gestire i processi di esubero e di ricollocazione, attraverso un grande sforzo di riconversione professionale e di promozione di politiche attive. Se questa sarà la pietra d’angolo, le parti sociali conquisteranno il diritto di pretendere dal governo e dal Parlamento le riforme necessarie. Anche se – come dice la saggezza contadina – è impossibile cavare il sangue da una rapa. Nel 1993 il Protocollo fu il primo e più importante atto, compiuto dai sindacati, in sostituzione di un quadro politico morente, facendosi garante della transizione. Oggi potrebbero ripetersi quelle condizioni? E’ molto improbabile. Il sistema politico-istituzionale versa nelle condizioni di Lazzaro. Quello economico e sociale non si sente molto bene. E in giro non si vede nessun nazareno in grado di compiere il miracolo della resurrezione.
Giuliano Cazzola