Fin dai primi passi della previdenza privata a capitalizzazione (dlgs n.124/1993; legge n. 335/1995; legge n. 243/2004 e dlgs n. 252 del 2005) il legislatore, in un crescendo normativo, ha cercato di orientare l’utilizzo del tfr maturando (con la sua aliquota pari al 6,91% della retribuzione) come la principale e più consistente forma di finanziamento delle forme di previdenza complementare, a cui aggiungere, nell’ambito della contrattazione collettiva, i contributi del datore e del lavoratore. Ciò per consentire ai lavoratori aderenti di disporre di un pacchetto di risorse significativo in grado di dare un senso prima al montante contributivo, poi al valore della prestazione. Un risultato che – secondo le stime – dovrebbe aggirarsi intorno ad un 10% della retribuzione, aggiuntivo al 33% di aliquota complessiva destinata alla previdenza obbligatoria. Visto che ne uscirebbe una vera e propria spoliazione del reddito presente in nome di una maggiore tutela futura attraverso il mix tra quota pubblica e privata, l’uso del tfr consente di mettere a disposizione, riconvertendone la finalità e rendendone attuale la disponibilità, una risorsa già inclusa nel costo del lavoro e quindi tale da non aggravarne l’onere, né di chiedere al lavoratore di attingere al netto della sua busta paga. La legge delega n.243/2004 e il dlgs attuativo n.252 del 2005 hanno affrontato il tema del conferimento del tfr maturando alle diverse forme (fondi chiusi, aperti, piani individuali). Secondo la norma vigente, entro i sei mesi successivi all’assunzione, il lavoratore può esercitare le seguenti opzioni: a) decidere di conservare il regime del tfr accreditate nel bilancio dei datori di lavoro, dichiarandolo però espressamente; b) scegliere, già all’atto della assunzione e in condizione di par condicio, una delle possibili tipologie di previdenza privata a capitalizzazione a cui destinare la propria liquidazione. Se il lavoratore resta passivo scatta un meccanismo del silenzio-assenso con il conferimento del tfr secondo una gerarchia di destinazioni che termina – ove non vi siano altre possibilità – in un fondo residuale costituito presso l’Inps (peraltro in via di liquidazione). Va notato che il tfr “inoptato” ovvero lasciato dal lavoratore in azienda, se essa ha da 50 dipendenti in su la quota viene destinata ad un Fondo Tesoro gestito dall’Inps che si prende in carico la liquidazione della prestazione con il metodo della ripartizione; ovvero dalle risorse incassate nell’anno per il trattamento di fine rapporto si prelevano le quote destinate, nell’anno medesimo, alla liquidazione delle prestazioni maturate (per i pubblici dipendenti è prevista una disciplina particolare che tiene conto delle specificità del tfs, delle sue modalità di erogazione e dei riflessi sulla spesa pubblica.
Chi scrive, ritiene che il tfr sia una risorsa troppo importante per l’autofinanziamento delle imprese e per le esigenze fondamentali dei lavoratori. Sarebbe sbagliato, allora, gettarlo nella mischia della vita quotidiana (come sarebbe avvenuto se si fosse consolidata l’opzione, clamorosamente fallita, dell’inserimento in busta paga come stabilito dalla legge di bilancio per il 2018). Il tfr resta la principale fonte di finanziamento della previdenza privata che ha una funzione strategica nel garantire una maggiore adeguatezza per i trattamenti pensionistici. Inoltre, sono consentite significative anticipazioni degli accantonamenti (anche di quelli detenuti nelle posizioni individuali dei fondi pensione) allo scopo di affrontare delle spese cruciali nella vita di una persona e della sua famiglia, come le cure sanitarie o l’acquisto di un’abitazione. Poi, davvero, le somme del trattamento di fine rapporto, finite ad incrementare le buste paga, sarebbero indirizzate ai consumi ? In verità, continua ad aumentare il risparmio precauzionale delle famiglie: una tendenza confermata dai recenti dati ISTAT con un incremento di quasi 5 punti nel primo trimestre fino a raggiungere il 12,5% del reddito disponibile. Tendenza al risparmio che nel caso del tfr si esprime attraverso il mantenimento delle quote nei bilanci aziendali o nella riscossione, a tempo debito, della prestazione degli stessi fondi sotto forma di capitale e non di pensione. Quanto all’allocazione del tfr, la quota che resta in azienda è di gran lunga quella prevalente (in relazione anche al numero preponderante delle aziende fin a 49 dipendenti che sono esonerate dal versamento nel Fondo Tesoro).
1.TFR generato nel sistema produttivo – Modalità di utilizzo
(flussi annuali; importi in milioni di euro) | 2015 2016 | 2017 | 2018 | 2019 | Totale 2007-2019 | ||||||
Previdenza complementare | 5.481 | 5.674 | 5.832 | 6.016 | 6.322 | 68.628 | |||||
Fondo di Tesoreria | 5.788 | 5.784 | 5.786 | 5.908 | 5.942 | 74.215 | |||||
Acc.to in azienda | 12.810 | 13.550 | 14.379 | 14.800 | 15.156 | 177.833 | |||||
Totale generale | 24.079 | 25.008 | 26.023 | 26.724 | 27.419 | 320.676 | |||||
Come emerge dalla tabella 1, su di un totale generale delle modalità di utilizzo del tfr dal 2007 al 2019 (si veda la recente Relazione della Covip sull’andamento della previdenza privata nel 2019) quasi 178 miliardi su 320 (55,5%) sono rimasti accantonati in azienda, mentre 74 miliardi (23,1%) sono finiti nel Fondo Tesoro (il surplus viene utilizzato come spesa corrente). La quota più bassa – sia pur di un ammontare pari a più di 68 miliardi (21,4%) – ha implementato le risorse destinate alle prestazioni delle forme di previdenza privata a capitalizzazione. Le risorse complessivamente destinate alle prestazioni, pari a 185,1 miliardi di euro, sono in crescita del 10,7 per cento rispetto al 2018; esse si ragguagliano al 10,4 per cento del PIL e al 4,2 per cento delle attività finanziarie delle famiglie italiane. L’aumento delle risorse accumulate, circa 17,9 miliardi di euro, è stato determinato da contributi per 16,1 miliardi, a fronte di uscite per prestazioni e altre voci della gestione previdenziale per 8,4 miliardi; il saldo della gestione finanziaria 2019 è stato positivo per circa 10,2 miliardi di euro.
Giuliano Cazzola