Carlo Bonomi ha rispettato le promesse. Per tutta la campagna elettorale aveva lamentato lo stato di minoranza nella quale era caduta da alcuni anni la Confindustria e aveva prospettato la necessità di uscire dal cono d’ombra che toglieva alla rappresentanza dell’industria italiana la leadership che quantomeno per tradizione gli appartiene. Quando ha assunto la presidenza ha manifestato le stesse intenzioni, pur creando qualche apprensione per alcune prese di posizioni molto, forse troppo forti. L’altro giorno, all’assemblea di Confindustria, ha confermato la strategia che aveva scelto. La proposta di un grande patto per l’Italia per rilanciare l’economia è quello che serve al paese, perché non basteranno certo i miliardi del Recovery Fund a salvarci. Prima della pandemia la nostra economia arrancava, vedeva allargarsi invece che restringersi le distanze rispetto agli altri grandi paesi industrializzati. Non aveva ancora recuperato il vuoto della crisi del 2008 mentre i paesi concorrenti correvano via veloci. La ripartenza è dunque un obbligo, ma bisogna saperla impostare, guidare, sostenerla, e solo l’unione convinta di tutte le grandi forze del paese, certamente la politica e le forze sociali, unite assieme, possono riuscire in questo compito difficile, complesso, non impossibile, ma certamente tale da richiedere un concorso di forze come normalmente non avviene.
Un grande patto sociale dunque, come ne ha parlato Bonomi, capace di dare gli impulsi necessari per un ripensamento generale dei grandi asset del nostro paese, non solo dell’economia. Una fusione di idee, progetti, spinte che diventino una grande forza in grado di portare l’Italia fuori dalle secche nelle quali si sta impantanando. Facile a dirsi, più difficile a farlo. Perché dire che il paese deve avere una vision che ne caratterizzi l’anima e ne guidi l’azione è facile, ma realizzarla è più complesso, è un’impresa per la quale servono caratteri forti, intelligenze acute, disponibilità piene che forse abbiamo avuto in passato, ma che non è detto siano oggi nelle nostre possibilità. La nostra classe dirigente, a tutti i livelli, è molto carente, la capacità di guardare lontano non è frequente, nemmeno la fantasia è largamente presente, mentre per immaginare il futuro, costruirlo e renderlo efficiente servono proprio queste capacità, queste attitudini. Per questo il piacere di sentire da Bonomi l’indicazione che serve, quella appunto di un grande patto sociale tripartito, è offuscato dal timore di non riuscire alla fine a realizzare l’obiettivo. Anche perché non ci sarebbero, o sarebbero veramente molto complessi, gli esami di riparazione. Se perderemo il treno dell’Europa, se non saremo in grado di usare le risorse che ci vengono messe a disposizione per una vera ripartenza, rimettendo in gioco tutti i vecchi equilibri per ripristinarne di nuovi, allora forse dovremo dire addio ai sogni di gloria, dovremo abituarci a una realtà fatta di piccole cose, a un ruolo minoritario nel mondo.
Ma è giustificato questo pessimismo? Per capirlo occorre forse guardare più da vicino i possibili protagonisti di questo grande patto sociale. Il governo in carica, il Conte2, non dà molte speranze. Non perché i singoli ministri non siano capaci, qualcuno forse non è proprio brillante come servirebbe, ma ce ne sono anche di molto capaci, quanto per la qualità delle forze che lo sostengono e per la loro coesione. I partiti politici in generale non sono forti, semmai è vero il contrario, sono molto deboli, come dimostrano del resto i risultati elettorali altalenanti degli ultimi anni, la prova della mancanza delle forti radici che esistevano una volta, come anche della capacità di assicurare la realizzazione delle promesse che vengono avanzate. Ma soprattutto non esiste un vero collante che tenga assieme questi partiti, le divergenze crescono invece di diminuire, dando l’impressione di non essere in grado di poter riuscire in un compito così delicato come quello di dare nuova linfa vitale al paese. Doveva essere il governo, o magari i partiti che lo sostengono a chiedere un grande parto per l’Italia, non dovevano essere i sindacati o gli imprenditori a farlo. È il governo che deve dare la spinta necessaria per un salto di qualità di questo spessore, ma dalla parte politica non è venuta mai un’indicazione del genere, nemmeno di sfuggita e per casualità. Il massimo che si è riusciti a fare sono stati gli Stati generali, nel complesso ben poca cosa.
Il sindacato da tempo chiede un parto sociale, questo sì. Landini lo ha detto più volte, Furlan ne ha fatto una sua bandiera, anche Barbagallo ha avanzato richieste in tal senso. E Bombardieri, che lo ha sostituito alla guida della Uil, ha indicato la necessità di una strategia alta che cogliesse questi risultati. Il sindacato sembra avere le carte in regola, quindi, anche se forse mostra delle difficoltà a capire l’ampiezza dell’intervento che servirebbe all’Italia. In tutta la pandemia ha mostrato una doverosa attenzione alla salvaguardia della salute dei lavoratori, chiedendo la chiusura di tutte le fabbriche che non erano in grado di assicurare le indispensabili garanzie di sicurezza. Era giusto che fosse così, come era giusto che gli imprenditori al contrario chiedessero di mantenere in funzione le strutture di produzione, per assicurare, più che la continuità dei rendimenti, quella di appartenenza alle grandi catene del valore, dalle quali è quanto meno pericoloso allontanarsi per un periodo lungo. Ma quando si è trattato di aiutare l’impostazione dell’azione politica del governo, quando si è trattato di prendere posizione, e avanzare richieste, per il momento successivo, appunto per la ripresa, allora forse le titubanze sono state eccessive, lo sguardo non si è lanciato molto lontano. La riproposizione dei vecchi equilibri e delle vecchie abitudini è sembrata troppo accentuata per chi a parole voleva cambiare strada.
Il terzo interlocutore è la Confindustria, anche se a rigore non dovrebbero essere solo gli industriali gli interlocutori di governo e sindacati, ma più in generale gli imprenditori, di tutti i settori della produzione e dei servizi. Ma il protagonismo di Confindustria è nelle nostre tradizioni e del resto proprio dell’assenza di questo ci lamentavamo fino a ieri. E Confindustria afferma di esserci, anzi è proprio il suo presidente a rivendicare l’avvio del confronto. Il problema nasce in parte proprio dalle parole di Bonomi, che da una parte sollecita un dialogo ampio, di cui sia partecipe il sindacato, dall’altro lo attacca con forza, e proprio su un terreno molto delicato come quello dei contratti. È evidente che se si vuole partire con un obiettivo alto come quello indicato non è possibile, e nemmeno molto utile, attardarsi a polemiche di non grande spessore su temi difficili per i propri interlocutori, quelli con i quali si è scelto di camminare, almeno per un tratto di strada. Ai compagni di viaggio non si fanno sgambetti. Ora è difficile entrare nel dibattito sull’andamento della campagna dei rinnovi dei grandi contratti nazionali di categoria, ma appare evidente come si tratti di un tema irrilevante quando si dovrebbe parlare di macroeconomia e di strategia della ripresa, quando si imposta una ristrutturazione profonda della produzione e della stessa economia. La contrattazione ha le sue difficoltà, ma è bene lasciarla a sé stessa, perché chi siede al tavolo della negoziazione sa come muoversi, gli interessi che rappresenta sono precisi e solo dalla loro composizione può uscire l’accordo. Le confederazioni due anni fa hanno stilato con il Patto della fabbrica delle regole, non precise, a volte appositamente vaghe per lasciare margini di movimento: e allora è bene lasciare alle parti sociali nelle categorie la soluzione dei loro problemi. Le ultimissime notizie dicono che non spira buona aria al tavolo dove si sta trattando il rinnovo del contratto dei metalmeccanici: non è una buona notizia, ma l’unica soluzione è quella di lasciare alle parti interessate, alla Federmeccanica e alle federazioni sindacali di categoria, l’onere di trovare un loro accordo. Non possono non riuscirvi perché è questo il loro interesse, perché tutte e due le parti sanno che da un accordo può venire la spinta per risolvere piccoli e grandi problemi del settore. Lo hanno fatto sempre, lo faranno anche questa volta. Questo non per affermare che i contratti non sono importanti, ma che è necessario sempre restare nel campo di gara, mai andare oltre perché si potrebbero commettere degli errori e alla fine inficiare il gioco. Governo e parti sociali hanno davanti una prateria, devono lasciarsi andare, correre avanti. Assieme potrebbero riuscirvi, divisi sarebbe almeno molto difficile, forse impossibile cogliere un risultato all’altezza delle aspettative.
Massimo Mascini