La rottura delle trattative per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici rappresenta un fatto grave, non tanto in sé ma per le conseguenze cui potrebbe dar luogo. È da tempo che i metalmeccanici non rappresentano più la parte più importante dell’organizzazione sindacale. Ci sono altre categorie più numerose ed economicamente più rilevanti, ma il mito dei colletti blu resta intenso. Una rottura che dicono sia arrivata improvvisa, ma che non era difficile pronosticare perché le posizioni sul salario erano contrapposte e difficilmente avvicinabili. Le imprese volevano in contratto uguale a quello di tre, ormai quattro anni fa, con un aumento dei minimi salariali molto basso, appena sufficiente a recuperare l’inflazione. I sindacati pensavano invece che questa fosse la volta buona per un salto di qualità, per far salire quei minimi in maniera consistente. Per questo avevano chiesto un aumento medio di 145 euro mensili. Il ragionamento delle imprese è lineare. La crescita salariale, affermano, deve esserci solo se l’impresa ha avuto anni positivi, è impensabile che i salari crescano in un’azienda che è in difficoltà, magari mentre sta lottando per restare sul mercato. Di qui la richiesta di spostare in sede aziendale la crescita di salario, dove ne esistano le condizioni.
Un ragionamento che fila, non fosse che per il fatto che la contrattazione aziendale tocca una minoranza dei lavoratori metalmeccanici, attorno al 30%, forse anche meno. Sono stati inventati negli anni dei meccanismi per assicurare una crescita salariale anche dove non si faccia contrattazione aziendale, ma si tratta di poca cosa, qualcosa certo, ma non tale da appianare la situazione tra chi ha aumenti salariali concessi in sede aziendale e chi questa possibilità non la ha. E si torna così al punto e alla rottura di mercoledì. Federmeccanica non si spiega l’atto. Forse sperava di forzare la mano ai sindacati, di ripetere l’exploit di quattro anni fa, quando però l’accordo fu raggiunto con grande difficoltà e solo perché la Fiom voleva a tutti i costi chiudere la trattativa in maniera positiva. Lo voleva soprattutto il suo segretario generale Maurizio Landini che sapeva che solo la firma del contratto gli avrebbe consentito di riprendere la scalata al vertice della sua confederazione, come poi è stato. Adesso è tutto più difficile, non c’è più Landini, e non c’è nemmeno Marco Bentivogli, sostituito da Roberto Benaglia, che è un ottimo sindacalista, ma che indubbiamente è piombato al vertice della Fim Cisl in un momento altamente difficile.
Ma se è giusto che i problemi di una categoria, anche quelli complessi come il rinnovo del contratto, restino all’interno della categoria, non intralcino la vita del movimento sindacale nel suo insieme, è allora auspicabile che questa rottura venga vissuta come un fatto interno dei metalmeccanici. È però altamente improbabile che ciò avvenga, i rapporti interconfederali sono molto tesi ed è possibile che l’irrigidimento coinvolga anche le confederazioni. Che però sono, o dovrebbero essere impegnate in un compito difficilissimo, cruciale per il paese, ma anche per la determinazione del loro ruolo politico. Cgil, Cisl e Uil e Confindustria dovrebbero in queste settimane impegnarsi al massimo per trovare un accordo con il governo per la gestione degli ingenti aiuti economici che l’Europa ha promesso. Un impegno cruciale per il nostro paese, che si è abituato a posizioni di coda in Europa, e che solo in un momento così particolare e grazie a queste risorse potrebbe riprendere la strada dello sviluppo, tornando a un ritmo di crescita come in altri anni abbiamo conosciuto e che ci ha fatto grandi. Ma solo con un grande patto triangolare questo potrebbe essere realizzato. Una rottura che dalla categoria dei metalmeccanici salga all’insieme del mondo confederale potrebbe rendere impossibile questo patto e forse anche lo sforzo di ripresa del paese. Per questo una riconsiderazione dell’importanza del contratto dei metalmeccanici sarebbe opportuna. Non dico che la categoria debba passar sopra a questo atto e che le parti debbano rinunciare alle loro convinzioni, dico che forse la politica confederale dovrebbe essere una cosa diversa da quella delle categorie. Anche se è stato Carlo Bonomi il primo a parlare del rinnovo dei contratti aprendo una polemica con le confederazioni sindacali.
C’è poi un’altra cosa che mi ha colpito in questo epilogo di trattativa. Che la Federmeccanica abbia affermato che sia inutile restare al tavolo di trattativa una volta che i sindacati abbiano deciso di dar seguito a proteste, scioperi e quanto altro. In realtà, si è sempre trattato in costanza di scioperi. Fu una delle tante conquiste dell’autunno caldo. Prima del 1969 o si trattava o si faceva sciopero. Appena cominciavano le agitazioni si sospendevano gli incontri. Da allora, da quella stagione contrattuale si cominciò a fare le due cose assieme. Perché adesso Federmeccanica vuole abolire quest’abitudine? Non è detto che chi avvia gli scioperi non possa continuare a trattare, magari è proprio la permanenza al tavolo di trattative a consentire il superamento delle divergenze di opinioni e il raggiungimento di un’intesa. Rimettere in discussione una conquista che i sindacati considerano storica non è sintomo di una grande volontà di arrivare a un accordo. Forse si dovrebbe recuperare un po’ di quella volontà e decisione che a marzo ha portato le parti sociali all’accordo per mantenere in funzione buona parte delle imprese italiane. Altrimenti si continua a ballare sul Titanic, senza rendersi conto che l’iceberg è li, a un passo.
Massimo Mascini