Sono chiamate morti bianche (ma non si capisce perché) le persone morte sul lavoro e quest’anno, secondo i dati dell’Inail, le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate all’Istituto nei primi otto mesi del 2020 sono state 823. Pur nella provvisorietà dei numeri, questo dato evidenzia già un aumento di 138 casi rispetto ai 685 registrati nello stesso periodo del 2019 (+ 20,1%). L’incremento è influenzato dal numero dei decessi avvenuti e protocollati al 31 agosto 2020 a causa dell’infezione da Covid-19 in ambito lavorativo. A livello nazionale, rispetto ai primi otto mesi dell’anno scorso, si registra una riduzione solo degli infortuni mortali in itinere, che sono passati da 192 a 138 (- 28,1%), mentre quelli avvenuti in occasione di lavoro sono aumentati da 493 a 685 (+ 38,9%). L’incremento ha riguardato la gestione Industria e servizi (da 588 a 721 denunce) e il conto Stato (da 10 a 32), mentre l’Agricoltura ha registrato 17 casi in meno (da 87 a 70).
E dobbiamo tenere conto che l’occupazione a causa della situazione economica è sostanzialmente diminuita , colpendo soprattutto le lavoratrici e i giovani. Si spiega così , per chi scrive,l’incremento rilevato nel confronto tra i primi otto mesi del 2020 e del 2019 è legato soprattutto alla componente maschile, i cui casi mortali denunciati sono passati da 627 a 740 (+ 113 decessi), mentre quella femminile ha fatto registrare 25 casi in più, da 58 a 83.
In aumento poi le denunce di infortunio mortale dei lavoratori italiani (da 559 a 700), mentre calano quelle dei lavoratori comunitari (da 44 a 41) e rimangono invariate quelle degli extracomunitari (82 in entrambi i periodi). Dall’analisi per fasce d’età si contraddistingue per l’incremento dei decessi quella degli over 55, rispetto alla diminuzione registrata nelle altre. L’esperienza maturata nel decennio di vigenza del decreto legislativo n. 81/2008 cd TU novellato più volte, ha fatto emergere soprattutto la mancata attuazione di tutta la parte “sostanzialista” che pure il testo unico comprende anche se confusa nella grande mole di disposizioni formalistiche. I programmi scolastici avrebbero dovuto includere una pervasiva attenzione alla cultura della sicurezza nelle attività lavorative ma nei fatti ciò è accaduto marginalmente ed in pochi ambiti territoriali.
La formazione dei lavoratori si è rivelata per lo più formale perché praticata con modalità didattiche tradizionali e verificata negli esiti effettivi con modalità altrettanto superficiali. L’addestramento, di cui pure il TU parla esplicitamente, è del tutto trascurato e non produce quindi un “saper fare” oggettivamente certificato. La sorveglianza sanitaria è mal pagata e si risolve conseguentemente in visite frettolose. Le “buone prassi” e le “norme tecniche” sono state totalmente trascurate perché prive di incentivi alla loro adozione.
La stessa attività ispettiva, che pure sarebbe dotata per molte fattispecie del potere di disposizione, ha preferito usare esclusivamente il potere di prescrizione con un diffuso orientamento delle imprese al pagamento tombale del quarto delle sanzioni, anche nel caso in cui avrebbero potuto ricorrere per la manifesta infondatezza della contestazione ricevuta, data la evidente convenienza rispetto ad un procedimento lungo e dall’esito incerto. Il SINP, strumento informativo fondamentale per il monitoraggio degli andamenti prevenzionistici nella complessa e differenziata dimensione produttiva, previsto dal TU, avviato nella sua definizione da un ulteriore decreto del 2018 ,ma non è ancora operativo e già carico di impostazioni che lo rendono poco funzionale alla selezione degli obiettivi ed alla verifica di efficacia delle azioni intraprese. Nel complesso la governance nazionale delle politiche pubbliche per la salute e sicurezza nel lavoro ha visto la poca o nulla attività degli organi partecipativi identificati dal TU.
Non ha aiutato infine una giurisprudenza incerta e discontinua, a partire dalla stessa interpretazione del modello sotteso al testo unico anche se la Cassazione Penale ha ribadito nel 2016 il suo carattere “collaborativo” tra le parti del rapporto di lavoro nel senso di una equa distribuzione delle responsabilità. Dominanti insomma sono stati i soliti adempimenti formali con l’aggravante della loro imposizione pressoché generalizzata senza tenere conto, soprattutto, delle esigenze del terziario e delle Piccole e Medie Imprese ove si registra un numero assai ridotto di infortuni.
L’Unione europea ha ripetutamente sollecitato gli Stati membri ad una semplificazione della disciplina sulla salute e sicurezza nel lavoro, soprattutto quando burocratica e documentale per cui tale da non incidere sui livelli di tutela. L’idea è favorire una gestione di questa fondamentale funzione da parte delle imprese che sia, più di quanto oggi accada, diretta a perseguire in modo sostanziale il rispetto dei livelli di tutela limitando l’utilizzo di risorse aziendali per compiti meramente formali, come le notifiche o le comunicazioni.
Del resto, tale logica è stata in Italia avallata dalla Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro (organo previsto dall’articolo 6 del decreto legislativo n. 81/2008) la quale, nell’approvare la “Strategia nazionale per la salute e sicurezza sul lavoro” in data 29 Maggio 2013, ha sottolineato come vada «perseguita la semplificazione del quadro regolatorio – alla imprescindibile condizione che essa non comporti alcun abbassamento dei livelli di tutela in ogni luogo di lavoro e nei riguardi di qualunque lavoratore». Peraltro la giurisprudenza dichiara che “il sistema della normativa antinfortunistica si è evoluto, passando da un modello “iperprotettivo”, interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro, quale soggetto garante investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori, ad un modello “collaborativo”, in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori” .
E’ invece necessario introdurre il principio del rispetto dei livelli di regolazione minimi previsti dalla legislazione comunitaria di riferimento, eliminando quelle parti delle normative italiane (leggi, decreti, altre fonti) che sono aggiuntive e non giustificate da esigenze di tutela dei lavoratori; la promozione della cultura della sicurezza nel lavoro e della prevenzione del bisogno di salute attraverso i luoghi di lavoro mediante l’istruzione, la formazione, l’addestramento, la sorveglianza sanitaria “olistica”, così da superare il profondo divario nelle aspettative di vita che separa le persone in relazione ai diversi percorsi professionali; la semplificazione di molte norme stratificatesi nel tempo e in particolare abrogazione delle disposizioni “di dettaglio” (tuttora vigenti, spesso risalenti agli anni Cinquanta) di cui ai Titoli II e seguenti del decreto legislativo n. 81/2008; complessiva rivisitazione della normativa vigente con riferimento all’apparato sanzionatorio in termini funzionali al superamento di ogni approccio “difensivo” e alla ricerca in ogni contesto produttivo della qualità totale che incorpora necessariamente la sicurezza di ogni persona che in esso agisce; riqualificazione attraverso continui programmi formativi delle attività ispettive e loro conduzione alla responsabilità dell’INL, privilegiando il potere di disposizione e sviluppando la funzione istituzionale di assistenza e consulenza alle imprese; potenziamento delle funzioni degli organismi paritetici – i quali già svolgono un ruolo di assistenza delle imprese sugli adempimenti prevenzionistici, nella formazione dei lavoratori e nell’asseverazione dell’adozione ed efficace attuazione in azienda di un modello di organizzazione e gestione della sicurezza – per raggiungere l’obiettivo di una vera “vigilanza partecipata”, in cui le attività di raccolta di buone prassi e di monitoraggio dei quasi infortuni siano valorizzate, confluendo in una banca dati integrata, gestita dall’Inail, che raccolga anche le denunce di infortunio e tutti i dati relativi alla sorveglianza sanitaria su base nazionale; introduzione della certificazione, da parte di un ente terzo e imparziale con specifico riferimento alla responsabilità amministrativa da reato. Una parte importante poi in tempi di covid è relativa alla modalità di lavoro in smart working (SW)che sono state oggetto di una informativa dell’inail nel giugno 2020 a fronte di quesiti avanzati dalle aziende e dai lavoratori e lavoratrici che si basa sull’ art 22 comma 1 della legge 81/2017 e del DPCM 26 aprile 2020 di un nuovo Protocollo condiviso per la prevenzione.
Vero è che gli “incidenti” possono riguardare la possibile “probabilità” di accadimento, dal punto di vista statistico, di un semplice infortunio, di una malattia professionale – in particolare quella riguardante l’esposizione al videoterminale – e non ultimo l’infortunio mortale, in relazione alle note rilevazioni Istat che indicano l’ambiente domestico, uno dei luoghi più a rischio.
Uno di questi rischi potrebbe riguardare la valutazione dello Stress lavoro-correlato che potenzialmente si potrebbe sviluppare presso la propria abitazione, per i rapporti interpersonali tra congiunti, parenti, vicini ed altro, alla stessa stregua dei rapporti, più o meno accentuati, con colleghi all’interno del consueto ambiente di lavoro fino ad oggi vissuto. Un altro aspetto di stress può riguardare l’impegno per portare a termine gli “obiettivi” concordati proprio in modalità “smart working” con il Datore di Lavoro, con i Dirigenti nel momento in cui insorgessero discrasie circa gli obiettivi non conseguiti, per varie motivazioni, e le conseguenti dinamiche di controllo dell’operato in particolare da parte del dirigente che a sua volta deve rispondere ad un superiore o direttamente al datore di lavoro. Un ulteriore aspetto può riguardare l’accettazione“obbligatoria”dello SW, come l’attuale “confinamento” da “Coronavirus”, da parte del lavoratore che oggettivamente non ha la possibilità “fisica” di inserire una normale “postazione di lavoro” in casa, o lavorare con il semplice computer, per una oggettiva carenza di spazio, o per la presenza di un “rilevante” numero di componenti familiari in uno spazio esiguo.
Pertanto il controllo degli “obiettivi” da conseguire in remoto sono e saranno gli indici qualitativi e quantitativi di misurazione della prestazione per “giustificare/autorizzare da parte del datore di lavoro la corresponsione della relativa parte economica, cioè la retribuzione e altri istituti economici previsti dai vari CCNL, materia di pertinenza contrattuale sopratutto di lavoro, in caso di prestazione lavorativa non rispondente alle richieste lavorative concordate direttamente con lo “smart worker”.
Va da se che il mancato raggiungimento degli “obiettivi” concordati, potranno rappresentare, alla stressa stregua di quanto la prestazione lavorativa veniva svolta all’interno dei locali dell’azienda, motivo di normale conflittualità aziendale e sindacale che prima veniva gestita direttamente all’interno, mentre nel caso specifico dello SW i provvedimenti potrebbero essere oggetto di possibile discussione anche all’interno del proprio nucleo familiare. Pertanto, queste analisi previsionali devono essere analizzate alla stessa stregua delle dinamiche lavorative all’interno dell’azienda.
Alessandra Servidori