Nella sua più recente conferenza stampa sull’emergenza Covid, andata in diretta radio-televisiva al suo orario preferito, le 21 e 30 di domenica sera, il capo del nostro Governo, Giuseppe Conte, ha avuto parole, allo stesso tempo, confuse e (almeno apparentemente) definitive sul Mes. Confuse, perché le argomentazioni svolte sono state così lambiccate da indurre due osservatori attenti delle vicende economiche e politiche nostrane, come Luciano Capone e Francesco Seghezzi, a postare con immediatezza, su Twitter, commenti molto forti. Seghezzi, Presidente della Fondazione Adapt, quella fondata da Marco Biagi, ha parlato di “assurdità” e di “imbarazzo”. Capone, giornalista del Foglio, un quotidiano sempre più filogovernativo, si è spinto – certo, a titolo personale – fino a parlare di “delirio”.
Parole (almeno apparentemente) definitive, abbiamo detto. Perché dopo aver spiegato agli italiani, assiepati davanti agli schermi televisivi al termine della cena domenicale, che il Mes è brutto e cattivo, sarà difficile che il capo del Governo possa invocarne l’uso. Del resto, già nella mattina di domenica vari giornali avevano capito cosa stesse bollendo in pentola; tanto che Stefano Feltri, direttore del Domani, aveva potuto intitolare così l’editoriale pubblicato sulla prima pagina del suo nuovo quotidiano: “Avremmo dovuto prendere i soldi del Mes”.
Ma parole anche confuse. In che senso? Innanzitutto, rispondendo alla domanda di un giornalista, Conte ha detto che quei soldi “sono dei prestiti”. Il che è vero. E ha poi riconosciuto che, rispetto ad altri prestiti – dato, aggiungiamo noi, il loro bassissimo tasso di interesse, vicino allo zero -, i soldi del Mes consentono “un risparmio”, relativo appunto agli “interessi”. Bene.
Dov’è allora il problema? Il problema sta nelle affermazioni secondo cui tali prestiti “non possono finanziare spese aggiuntive” e secondo cui con essi si possono coprire solo “spese già fatte”. Affermazioni del tutto arbitrarie, visto che le nuove linee di credito di cui stiamo parlando, concepite dall’Unione europea e collocate nell’ambito del fondo noto come Meccanismo europeo di stabilità, sono state create ad hoc, ovvero per venire incontro alle eventuali esigenze degli Stati dell’Unione di effettuare nuove spese, prima impreviste, per affrontare le conseguenze dell’emergenza provocata dalla pandemia da Covid-19. Insomma, tali linee di credito servono proprio per finanziare spese aggiuntive, innanzitutto e specificamente di tipo sanitario, rispetto a quelle previste nei bilanci messi a punto nel 2019 per l’annata 2020. E ciò perché, quando sono stati redatti i bilanci per il 2020, nessuno sapeva che stava per scoppiare l’emergenza Covid.
Ma non è tutto. Rispondendo alla stessa domanda, Conte ha anche osservato che i soldi del Mes, ove richiesti dalla Repubblica italiana, andrebbero a “incrementare il debito pubblico”. Il che, ancora una volta, è vero. Solo che Conte si è poi appoggiato su questa ovvietà per agitare davanti alle menti dei telespettatori e dei radioascoltatori la minaccia dell’incombere di nuove tasse. Infatti, Conte ha detto che, “se prenderemo i soldi del Mes”, egli dovrà intervenire “con nuove tasse o tagli di spese”. E ciò perché “dobbiamo tenere sotto controllo” il deficit. Espressione imprecisa, quest’ultima, che sta probabilmente a indicare una crescita del debito pubblico.
Insomma, par di capire che, secondo il nostro Presidente del Consiglio, soldi ottenuti vendendo Buoni del Tesoro, magari alla Bce, oppure ricevuti dall’Unione Europea sotto forma di loans (prestiti) nell’ambito dell’iniziativa denominata Next Generation EU, sarebbero un debito “buono”, che non pesa sul bilancio pubblico, mentre altri soldi ricevuti in prestito, a tassi praticamente inesistenti, dal Mes, cioè dalla stessa Ue, sarebbero un debito “cattivo” che obbligherebbe lo Stato a imporre ai contribuenti nuove imposte. Una tesi, questa, che, da un punto di vista economico, è sicuramente inconsistente e insostenibile.
E ciò anche perché, come è ampiamente noto, le vere differenze che ci sono fra i soldi del Mes e quelli del Next Generation EU sono due. Innanzitutto, i primi sono già pronti – per averli, basta chiederli – mentre i secondi non si sa ancora se e quando saranno effettivamente disponibili. In ogni caso, non prima di metà del 2021. In secondo luogo, le linee di credito appoggiate al Mes sono specificamente finalizzate all’irrobustimento e al miglioramento dei sistemi sanitari al fine di meglio combattere, con la rapidità necessaria, le conseguenze dirette della pandemia. Dopodiché, come è noto, tutti i prestiti, prima o poi, vanno restituiti.
Terzo punto. Conte ha fatto sua la discutibile teoria del cosiddetto “stigma”. In parole povere, secondo tale teoria il fatto stesso che l’Italia, a differenza di altri Paesi della Ue, faccia ricorso alle linee di credito appoggiate sul Mes, getterebbe una cattiva luce sul nostro sistema-Paese, facendoci rischiare un innalzamento del costo di altri prestiti di cui potremmo aver bisogno. Tesi inconsistente visto che c’è già uno stigma, ovvero un elemento di cattiva fama, che grava sull’immagine finanziaria del nostro Paese, ed è quello derivante dal fatto, più che notorio, che il nostro debito pubblico si colloca fra i più alti al mondo. Ma, nonostante questo fatto, indiscutibilmente negativo, e cui occorrerebbe comunque porre rimedio, la Repubblica italiana riesce comunque a vendere i suoi Buoni del Tesoro, finanziando per questa via il proprio debito.
Sorge allora la domanda: perché il Presidente del Consiglio ha fatto in diretta televisiva – anzi, in una diretta televisiva sapientemente convocata e orchestrata dal fido Casalino per avere il massimo degli ascolti e dell’impatto sull’opinione pubblica – delle affermazioni così avventate? L’unica risposta possibile è questa: per tentar di chiarire una volta per tutte ai suoi alleati europeisti, Pd e Iv, ovvero Zingaretti e Renzi, che devono smettere di ricordargli in pubblico un giorno sì e l’altro pure che sarebbe utile ricorrere alle linee di credito anti-Covid del Mes. Su questo punto, dopo essersi sbilanciato in pubblico, e staremmo per dire dopo essersi sbilanciato all’interno delle sale da pranzo o delle cucine delle famiglie italiane, Conte non può più tornare indietro. O, quanto meno, avrebbe enormi difficoltà a farlo. Anche se ieri sera, dopo le proteste del Pd, ha dichiarato che non intende farlo almeno fino ai cosiddetti Stati generali del Movimento 5 Stelle. Stati generali che sono stati convocati per il prossimo novembre. Dopo i quali, se sarà concretamente accolta la richiesta del segretario Pd, Nicola Zingaretti, dovrebbe aprirsi, all’interno della maggioranza, un “tavolo politico” volto a definire, come ha detto Conte ieri sera, un “patto” – si immagina programmatico – “di fine legislatura”.
Questa vicenda, nella sua tortuosità, ci fa venire in mente un’altra strana storia: uno dei capitoli di quella vicenda a puntate che va sotto il nome di vertenza Ilva.
Nel settembre del 2018, quello che era allora il “capo politico” del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio, firmò, nella sua veste di Ministro dello Sviluppo economico, l’accordo Ilva, ovvero l’accordo con cui il colosso franco-indiano dell’acciaio, ArcelorMittal, si impegnava ad entrare definitivamente in possesso, entro il 2023, delle strutture aziendali della Ex Ilva in Amministrazione straordinaria. L’accordo, a dire il vero, era stato costruito dal suo predecessore, Carlo Calenda, ma la fine della XVII legislatura aveva impedito che un negoziato così complesso – come quello triangolare fra Governo Gentiloni, impresa subentrante e sindacati – venisse portato a buon fine in tempo utile.
Avviata la nuova legislatura, e sorto il nuovo Governo basato sull’alleanza fra Lega e M5S, dopo una ripresa della trattativa che aveva consentito ai sindacati di esprimere il proprio assenso, l’intesa fu definita al Mise con soddisfazione delle parti. E Di Maio si fece bello di essere riuscito là dove Calenda aveva fallito.
Nella primavera del 2019, però, le elezioni europee segnarono un netto arretramento del Movimento 5 Stelle. Arretramento che fu particolarmente cocente in Puglia. Forse per riconquistare i consensi perduti, l’ala fondamentalista del movimento, guidata dalla senatrice pugliese Barbara Lezzi, che si era pronunciata in precedenza a favore della chiusura dell’Ilva, lanciò allora un’offensiva contro ArcelorMittal. Offensiva che culminò vittoriosamente nella cancellazione dello scudo legale che proteggeva i dirigenti della multinazionale da eventuali iniziative giudiziarie legate alle pregresse questioni ambientali dello stabilimento tarantino.
L’azienda acquirente, già sconcertata dal clima di ostilità manifestato nei suoi confronti dalle autorità locali, colse allora la palla al balzo, dichiarando che considerava questa cancellazione come una violazione delle condizioni contrattuali pattuite nel 2018. Si apriva così un contenzioso contrattuale tra la parte venditrice, il Governo, e la parte acquirente, ArcelorMittal. Contenzioso che si concludeva provvisoriamente nel marzo scorso con un armistizio in base al quale la stessa ArcelorMittal, qualora si ritenesse insoddisfatta del risultato delle successive negoziazioni, quelle attualmente ancora in corso, potrebbe – entro il prossimo novembre – rescindere il contratto vigente, cavandosela con una penale relativamente modesta.
In pratica, per riconquistare i consensi perduti, il Movimento 5 Stelle ha scatenato un’offensiva contro la perfida multinazionale franco-indiana, trascinandosi dietro il capo del Governo, Giuseppe Conte, e la benevola neutralità del Partito democratico e di Italia Viva. Però, contemporaneamente, ha messo un’arma contrattuale in mano alla vittima predestinata dei suoi attacchi, la stessa ArcelorMittal, e ha quindi finito per rafforzare la posizione negoziale di quest’ultima nei confronti del nostro Governo. Un bell’esempio di etrogenesi dei fini.
Torniamo al Mes. Durante la XVII legislatura, quando il Pd era al Governo, M5S e Lega erano accomunati oltre che da un’ostilità di fondo verso gli immigrati – più forte in bocca di Salvini, un filino più tenue in quella di Di Maio -, da un radicato sospetto verso l’Unione europea. Di qui, fra le altre cose, la demonizzazione del Mes. I due stati maggiori hanno dunque detto e ridetto alle proprie truppe, pardon ai propri elettori, che il Mes è brutto e cattivo, come e peggio di tutto ciò che viene dall’Unione europea.
Ora, come è stato già ampiamente chiarito, dopo l’esplosione della pandemia da Covid-19, sono state create, in ambito Mes, delle nuove linee di credito specificamente finalizzate a irrobustire le risorse finanziarie disponibili per consentire agli stati membri della Ue di affrontare le conseguenze sanitarie della diffusione della pandemia stessa. In parole povere, queste nuove linee di credito non hanno nulla a che fare con le cosiddette condizionalità connesse al modus operandi iniziale del Meccanismo europeo di stabilità. Insomma, a prendere questi prestiti non si corrono rischi specifici, ma si hanno solo vantaggi. Anche perché, per ciò che riguarda l’Italia, si tratterebbe di una cifra che si aggira fra i 36 e i 37 miliardi di euro, già belli e pronti per l’uso. Tipo ammodernare e rafforzare i nostri ospedali, o cose di questo genere.
Ma, per lo Stato maggiore del M5S, accedere a queste linee di credito significherebbe negare ciò che ha detto e ridetto per mesi e mesi ai propri elettori. Ora ciò è giudicato particolarmente insopportabile dall’ala fondamentalista del movimento. La stessa ala che si schierò dietro alla senatrice Lezzi nell’offensiva contro ArcelorMittal, grande gruppo siderurgico malvisto in quanto capace di assicurare un futuro alla ex Ilva di Taranto. La stessa ala, ancora, che simpatizza, più o meno apertamente, per Alessandro Di Battista. Un cui post su Facebook ci aiuta a capire cosa è veramente successo domenica sera.
Renzi, per polemizzare con Conte, ha osservato che l’addio al Mes lanciato dallo stesso Conte avrà reso felici Meloni e Salvini, ovvero i leaders dei due partiti nostrani che sono ufficialmente sovranisti e anti-europeisti. Più sottile, Di Battista ha insinuato, invece, che, i due leaders dell’opposizione ci siano rimasti male. E ciò perché Conte, con la sua mossa, ha tolto loro la possibilità di attaccare l’attuale Governo su questo terreno.
Con ogni probabilità, Di Battista ha ragione. I fondamentalisti del M5S non vogliono che il Governo da loro sostenuto faccia ricorso al Mes. E ciò proprio nel timore che una simile decisione offra a Lega e a Fratelli d’Italia un’occasione per erodere altri consensi nel vacillante elettorato del M5S. Quindi hanno minacciato di togliere il loro consenso al Governo in caso di ricorso al Mes. Ciò ha spaventato l’ala governista del Movimento, quella che fa capo a Crimi e a Di Maio. I quali hanno fatto pressione su Conte. Il quale ultimo ha colto l’occasione costituita dalla recrudescenza della pandemia per lanciare un doppio messaggio. Da un lato, all’elettorato grillino, per confermare che il suo Governo non intende uscire dal seminato. Dall’altro, ai suoi alleati europeisti, Pd e Iv, per chiarire che non intende accettare idee che possano mettere a rischio la maggioranza, peraltro sempre più esile, su cui si appoggia.
Morale della favola. Al di là di qualsiasi evidenza logica, e contro l’interesse economico del Paese, ma anche contro le reali capacità operative del suo Governo in materia sanitaria, Conte ha fin qui scelto il piccolo cabotaggio: vivacchiare con la sua maggioranza al solo scopo di vivacchiare. Rinverdendo il vecchio detto andreottiano secondo cui è meglio tirare a campare che tirare le cuoia.
In un articolo della primavera scorsa, avevamo sostenuto che Conte era prigioniero del proprio esercito, quello grillino, che gli impediva di fare, in materia di accesso al Mes, la scelta giusta. Oggi dobbiamo constatare che è ancora prigioniero. Ma non più del proprio esercito. Ormai solo di sé stesso. Perché non ha ancora trovato il coraggio di spiegare al M5S e all’elettorato grillino ciò che lui sicuramente sa, ovvero come stanno veramente le cose.
@Fernando_Liuzzi