Lo stallo in cui si trovano molte trattative per rinnovi contrattuali ci dicono una cosa con grande chiarezza, che le relazioni industriali sono a una vigilia di trasformazione. Il sistema in vigore scricchiola sempre di più. Annaspa, non ce la fa a risolvere i problemi. La pandemia è alla base di queste evidenti difficoltà, perché ha gettato un faro di luce sulla realtà e ha fatto risaltare le deficienze. Anche il massiccio ricorso allo smart working, tanto lodato, ha fatto emergere difficoltà e lacune. È necessario un giro di boa, un cambiamento, e questo deve essere abbastanza radicale, perché i piccoli interventi non possono risolvere i grandi problemi.
Cambiare, allora. Il problema è dove farlo e come. Sicuramente deve cambiare l’approccio al salario. Sono settant’anni che tutta la politica salariale gira attorno all’inflazione, per capire come misurarla, come attenuarla, come recuperarla. Sono stati spesi decenni attorno al sistema di scala mobile, anche qui per instaurarla, correggerla, poi abolirla. Adesso l’inflazione non c’è più, i governi studiano come attivarla. Il Fondo monetario ha detto che al nostro paese servirebbe un’inflazione almeno al 2%, forse anche più alta, fino al 5%. Una bestemmia solo qualche anno fa, quando tutte le energie erano spese per attenuare il fenomeno. Ma questa è la realtà, solo che la politica salariale è ancora al campionato precedente. Gli alimentaristi stanno litigando per un incremento salariale di poche decine di euro e per tanti settori di questo grande comparto non c’è pace proprio a causa di queste decine di euro in più al mese. Lo stesso vale per i metalmeccanici, che non hanno ancora stabilito se sia meglio ridare i pochi soldi per recuperare l’inflazione prima che questa si verifichi o solo dopo. Francamente, sembrano battaglie di retroguardia.
Alessandro Genovesi, il segretario generale degli edili della Cgil, parlando giovedì alla Scuola di relazioni industriali, ha ricordato l’importanza della crescita salariale, come leva per far crescere la domanda interna, sempre un po’ asfittica, e perché agisca sulle decisioni delle imprese spingendole ad accrescere la produttività per recuperare i maggiori costi, quindi a realizzare nuovi investimenti. Quella che Paolo Sylos Labini chiamava la “frusta salariale”, proprio perché agiva come incentivo sulle imprese. Questo è sicuramente vero, ma va impostata una strategia differente dal passato, che riesca a far crescere davvero la produttività, la vera spina nel fianco del nostro sistema produttivo, dal momento che è ferma da trent’anni o almeno da trent’anni non cresce a sufficienza.
Come riuscirvi, resta il nodo da sciogliere. Gli imprenditori credono che la via maestra debba essere la contrattazione aziendale, indicazione che sembra sensata, dal momento che è in azienda che si possono aggredire i fattori di ritardo e inefficienza. Ma la contrattazione resta appannaggio di un numero limitato di imprese, perché tutte le piccole e gran parte delle medie aziende non la praticano e non la praticheranno. Si potrebbe tentare con la contrattazione territoriale, regionale o cosa altro. Anche questa sembra un’indicazione sensata, perché la produttività non è solo quella di impresa, pesa e spesso molto di più, la produttività di sistema, e questa si modifica solo con le grandi, o le piccole se in chiave regionale, riforme strutturali. Ma sono le grandi imprese, quelle che fanno già contratti d’azienda, a temere che per questa strada si arrivi a un terzo livello di contrattazione. E per arrivare alle grandi riforme strutturali non basta l’ottimismo della ragione, serve una comunione di intenti che solo con uno sforzo corale è possibile realizzare.
Abbiamo parlato di salario, ma lo stesso discorso può valere per l’orario di lavoro. Si discetta sempre di più se si debba parlare di orario di lavoro o non invece di tempo di lavoro. La diffusione dello smart working ha gettato una luce sulla possibilità di cambiare la realtà del lavoro, che sia sempre più prestazione di opera e non di ore lavorate. Si fa crescere la produttività diminuendo i tempi di lavoro, ricorrendo quanto possibile a part time, che siano però volontari, con una rivisitazione profonda dell’organizzazione del lavoro. Il lavoro cresce, si modifica, ma tradurre queste intuizioni in una politica dell’organizzazione del lavoro appare impresa assai difficile. Luciano Pero sul nostro giornale più volte ha spiegato l’importanza di cambiare drasticamente la politica degli orari, appunto per ridurli e per diffondere il part time, ma solo qualche grande e illuminata azienda ha tradotto queste idee in una pratica. Anche qui serve una coralità di interventi che solo una regia accorta e generalizzata potrebbe realizzare.
Questi ragionamenti portano sempre allo stesso punto, all’urgenza di una grande patto triangolare che unisca gli sforzi di istituzioni e parti sociali per cambiare le carte in tavola. Tutti lo evocano, tutti pensano sia necessario, manca sempre la spinta iniziale. Ci deve pensare il governo? Forse sì, ma se vuole farlo deve farlo in fretta, perché i tempi sono sempre più stretti. Adesso abbiamo la grande opportunità di poter contare sui fondi che l’unione europea potrebbe metterci a disposizione, meglio usare il condizionale perché bisogna meritarseli. Ma, appunto, bisogna decidere e poi agire, con grande fretta.
Massimo Mascini