Accade di tutto in tempo di pandemia. Anche che tutti i dipendenti del pubblico impiego siano chiamati a scioperare. Impresa difficile, perché il lavoro è ai minimi termini, per lo più gli impiegati stanno a casa, comunque in piazza non ci si può andare per il divieto di assembramento. E proprio perché l’evento rischia di essere un unicum si sono scatenate le polemiche, che, raddoppiate dal rancore che percorre la penisola e da un certo diffuso quanto antico malanimo verso gli impiegati pubblici, hanno fatto scaldare gli animi. Forse è bene cercare di capirci un po’ di più, per evitare il solito fascio di tutta l’erba che capita. La prima cosa su cui ragionare è lo sciopero. Non fa mai bene a chi lo subisce, che sia il padrone, come dicevamo un tempo, o l’utente che non può prendere il treno o che trova gli uffici comunali chiusi. Ma lo sciopero arriva di solito quando c’è un conflitto, uno scontro di interessi. I miei maestri mi hanno insegnato che il conflitto non è mai un male, al contrario è un bene, perché alla sua base c’è sempre un problema, che va risolto, altrimenti provoca guasti, economici o sociali che siano, che non possono non crescere se irrisolti. Quindi conflitto, ma se c’è il conflitto si guerreggia e il sindacato non ha poi grandi armi a sua disposizione. Ha lo sciopero, e lo usa. Importante è che sia commisurato all’obiettivo che si vuole raggiungere. In questo caso i sindacati chiedono il rinnovo dei contratti di lavoro pubblici. È in corso una trattativa, che però non riesce ad arrivare alla sua conclusione. Non ci sono i soldi necessari, cioè la disponibilità del padrone pubblico non è sufficiente ad andare incontro alle richieste sindacali. Difficile dire chi ha ragione. Di sicuro c’è che i pubblici dipendenti per tutta la grande crisi economica degli anni passati hanno fatto, volenti o nolenti, a meno dei loro contratti, che per otto anni non sono stati rinnovati. Adesso si sentono un po’ scottati e premono per avere quello che altri settori economici hanno, più o meno. Insomma, è una trattativa contrattuale come tante altre, perché stupirsi allora perché si prendono delle decisioni, certamente difficili e sofferte, ma proprio per questo bisognose di attenzione e circospezione al momento dei giudizi, troppo spesso sommari? Resta il problema della difficoltà di attuare uno sciopero mentre tanti di questi lavoratori sono a casa in smart working e quando non si può andare per strada, tanto meno per protestare tutti assieme. Ma sono i sindacati che si sono presi questa responsabilità, saranno loro a fare i conti dopo.
Ma c’è dell’altro dietro le polemiche di questi giorni. c’è quel malanimo verso l’impiegato pubblico, che si lamenta ma ha il posto fisso, guadagna bene e, soprattutto, lavora poco e male. Tanto è vero che nei lunghi mesi di lockdown con la scusa dello smart working si è preso una bella vacanza. Accuse che vanno per la maggiore e sulle quali forse è bene vederci meglio. Perché il posto fisso in realtà non c’è più, non almeno come una volta, l’impiegato pubblico può essere licenziato e in effetti è quello che succede. Non in maniera diffusa, ma accade. E non è vero che il lavoratore pubblico guadagna più degli altri, non fosse per il fatto che per otto anni ha dovuto fare a meno dei suoi rinnovi. Resta il fatto che l’impiegato pubblico lavora poco e male. Affermazioni del genere dovrebbero lasciare il tempo che trovano, perché stiamo parlando di tre milioni di persone e non sono tutte uguali. Ma che la macchina burocratica italiana funzioni male è un dato di fatto, è uno dei motivi più forti per i quali gli investimenti esteri latitano, perché nessun imprenditore vuole scontrarsi con una burocrazia spesso ottusa, cavillosa, priva di inventiva e funzionalità. Ma forse c’è da chiedersi di chi sia la responsabilità di queste deficienze. Sono i lavoratori che preferiscono stare con le mani in mano, o lavorano male perché sono antiche e mal fatte le regole con le quali sono costretti a lavorare? Chi è che non ha fatto nei decenni le riforme della macchina burocratica che erano necessarie? Forse il peso di queste colpe lo hanno i vertici dell’amministrazione e la mano pubblica, il legislatore e i ministri che non hanno voluto o saputo cambiare le regole. E’ vero con tutta probabilità che i pubblici dipendenti in smart working hanno lavorato poco e male, ma forse dovevano ricevere delle istruzioni diverse, era necessario mettere a punto delle regole diverse, dovevano essere guidati davvero, bisognava dir loro cosa dovevano fare e come. La macchina fa acqua da tutte le parti, ma non è compito dell’impiegato pubblico riformare il proprio lavoro. Non ci hanno pensato i ministri e nemmeno i dirigenti pubblici, che qualche cosa dovevano fare se, appunto, vogliono dirigere. Adesso forse, proprio a partire da questo sciopero, qualcuno ci penserà meglio che in passato e forse, chissà, magari la macchina pubblica la riformano davvero.
Massimo Mascini