L’anniversario di fondazione del Partito Comunista d’Italia (sezione dell’Internazionale Comunista) sta diventando (come naturale che sia) tante cose.
Un’occasione di riflessione e approfondimento storico-politico sul novecento (“il secolo breve” non a caso inizia con la prima guerra mondiale e la rivoluzione bolscevica del 1917 secondo la felice classificazione di Eric Hobsbawm), sul nostro paese e su quella originale comunità politica che si fece cronaca e storia.
Assumendo come classificazione più corretta quella, politicamente parlando, recuperata anche recentemente da D’Alema di un PCI che nasce tra Lione e il partito nuovo di Togliatti e le “sue” vie nazionali, inquadrando – come del resto fece lo stesso Gramsci nelle sue riflessioni in carcere, poi ripreso da Paolo Spriano – i primi anni, dal 21 a Lione, come una sconfitta del tentativo di egemonizzare il PSI; dove il ruolo del nucleo ordinovista è minimo e dove si assiste più ad un sussulto tra due “estremismi infantili”, di Serrati e Bordiga, che non alla costituzione della sezione italiana dell’Internazionale leninista.
Ma anche un momento di (legittima) nostalgia sentimentale (“il partito comunista radicato dentro” come scrive con la sua caratteristica dolcezza Luciana Castellina) che era tante cose, ivi compresa una comunità di donne e uomini che realizzavano sé stessi dentro una missione (“l’altra chiesa” si scriveva una volta, terribile e rassicurante insieme).
Può essere, però, anche l’occasione per recuperare o facilitare una discussione sul senso profondo di quella che oggi è o dovrebbe essere “la sinistra nel mondo”, senza piegarla ovviamente agli opportunismi della cronaca e senza cadere in banalizzazioni e semplificazioni (“il PCI fu una vera forza riformista?” Domanda priva di senso nel contesto della guerra fredda, della collocazione geo politica dell’Italia, della fine degli imperi coloniali, ecc. ecc.).
Da un punto di vista propriamente storico-politico, tra le tante iniziative sorte anche dal basso (penso a quanto sta facendo la rivista InfinitiMondi a Napoli), finora (a mio parere) l’appuntamento più pregevole (e completo) è quello messo in piedi dalla Fondazione Gramsci a metà novembre dell’anno passato (“Il comunismo italiano nella storia del novecento”, da vedere con calma e con il “quaderno per gli appunti” ben aperto; https://www.fondazionegramsci.org/convegni-seminari/il-comunismo-italiano/?sub=), così come significativi sono diversi cammei che, pur non volendo, accompagnano questo anniversario.
Da quanto si va scrivendo in queste ore sulla scomparsa di Em. Ma (tra i vari “coccodrilli” scritti per il compagno Macaluso, alcuni sono pregevoli, in particolare quelli che recuperano la sua biografia ed i suoi interventi sulla questione sociale e che ben fotografano lo “strano animale, la Giraffa” quale il frutto più autentico della dialettica tra visione togliattiana e pratica divittoriana) alla più problematica ricostruzione politica e personale di una figura “sofferente” quale quella di Bruno Trentin, da alcuni in modo maldestro inserito nel filone di pensiero di “Masse e Potere” di Ingrao (la formazione di Trentin fu assai più eclettica, direi perennemente oscillante tra pensiero azionista, individualismo e conoscenza raffinata del marxismo scientifico tanto da farne la prova vivente dalla capacità di inclusione intellettuale del PCI che riusciva a mantenere costante una dialettica dentro un “comune campo da gioco”; si vedano in particolare i Diari pubblicati qualche anno fa da Ediesse e curati da Ariemma ed in parte – ma perché più concentrato sull’involuzione della classe politica ex PCI – il recente libello curato da Andrea Ranieri, che di quella scuola, quella del PCI non fu mai “allievo ortodosso” a differenza di Iginio, Segretario del PCI Torinese). O ancora la ripresa in mano degli scritti di Rossanda, anche essa figlia legittima di un PCI e della sua “ambiguità leninista” che, con Magri, rappresenta un filone di quella storia e non certo una fuoriuscita da esso…
Mentre più limitate e parziali finora (e su questo proverò a dire qualcosa) sono le analisi da “scienziati della politica” sull’eredità e attualità di un pensiero (primo corno del discorso) e di una pratica (secondo corno) che il PCI (ma in parte la stessa CGIL che non fu solo dialettica con il PCI, ma fu anche tanto di questo) consegna alle diverse generazioni.
Alle generazioni che con quel partito fecero i conti (dentro come militanti e dirigenti, ma anche fuori provengano dal PSI o dalla DC poco importa, fino alla svolta della Bolognina), a quelle generazioni di mezzo (la mia, troppo giovani per essere stati dirigenti comunisti e troppo grandi per essere figli della post ideologia; una generazione nata nella seconda metà degli anni 70 e che “fu lambita dai due mari” ) ed infine parla – o potrebbe parlare – a chi ha conosciuto solo gli attuali partiti politici (e che sente di essere “incompleta”, si veda per esempio il fenomeno recente della riscoperta di Berlinguer come icona ma anche come dirigente politico da parte di chi non era neanche nato nel 1984).
Sull’attualità del pensiero politico inizio, allora, da una riflessione “destruens”: la semplice categoria politica per cui il PCI fu una forza volutamente riformista è in parte vera e in parte falsa.
Fu riformista nella pratica (cioè predicò la presa del potere attraverso libere elezioni democratiche, usando il “quadrilatero” rappresentato da Partito, Sindacato, Movimento Cooperativo, Associazionismo culturale, per condizionare dall’opposizione a livello nazionale e governare dagli enti locali) non solo perché ancorato ai testi sacri (perennemente rivitalizzati da quella miniera inesauribile che è il pensiero gramsciano, sempre però da contestualizzare e storicizzare) per cui l’Italia dovesse conoscere prima la rivoluzione/modernizzazione borghese democratica, come esaurimento di una fase storica propedeutica, poi, alla rivoluzione socialista…
Ma anche e soprattutto perché le dinamiche della guerra fredda e la lunga mano di Yalta non mettevano a disposizioni altre soluzioni (l’eco profondo dello “state calmi” di un Togliatti ferito in ospedale o della “Lezione cilena” degli scritti di Berlinguer sul compromesso storico, sono i momenti-topos di quel campo da gioco obbligato).
La grande specificità dello scontro permanente sulle vie nazionali (dalla svolta di Salerno al memorale di Yalta fino all’”esaurimento della spinta propulsiva” e all’ultimo tentativo egemonico tentato dal PCI, a parer mio, con l’Eurocomunismo; con tutte le contraddizioni, i drammi politici e personali, ecc.) del resto ha sempre sotteso tutto ciò: il tentativo perenne di introdurre “dosi di socialismo statalista” all’interno di una democrazia liberale, rivitalizzando continuamente prassi e teoria, azione quotidiana e sol dell’avvenire, come limite ma al contempo originalità del movimento comunista italiano dal 43 all’89.
Dove il senso delle “riforme di strutture” (su questo non condivido la banalizzazione dialettica di D’Alema che liquida tale termine come un mero escamotage dei comunisti per “non dirsi riformisti”, si veda l’intervista rilasciata a Repubblica proprio oggi, 20 Gennaio) era il terreno agibile dal PCI proprio in virtù di un “potere” contrattuale che, nell’occidente, la questione sociale (e i suoi rappresentanti) potevano esprimere in funzione della divisione del mondo.
Tradotto: poiché in una parte del mondo (con limiti, distorsioni, errori bonapartisti, ecc., metteteci tutti gli aggettivi più negativi che volete) era diventato un fenomeno storicamente reale l’estinzione della proprietà privata (URSS, Cina, ecc.), era il rischio di “faremo come la Russia” che facilitò un compromesso tra capitale e lavoro più spostato a favore del lavoro, a imbrigliare gli spiriti animali.
E se un filone vero andrebbe indagato di più ancora oggi (e che segna la vera sconfitta di Gramsci e del leninismo rispetto all’evoluzione del pensiero togliattiano e alla concreta realizzazione del “socialismo in un solo paese” che plasmò di fatto l’intera storia del blocco sovietico) è come da entrambi le parti divise dal muro, il superamento dei limiti del mercato, della proprietà privata (cioè per quello che potremmo banalmente definire “il socialismo”) non è stato mai consegnato a processi di liberazione dal basso, alla centralità dei consigli (o dei soviet presto “imbrigliati e svuotati”), alla centralità (e differenze) delle comunità locali, alla liberazione del rapporto lavoro fisico-lavoro intellettuale in una concezione di nuovo umanesimo (il tema non è l’Homo Novus, ma se esso è il prodotto di processi reali di emancipazione o di indottrinamento di regime come spiegò bene Marcuse), ma invece – e sempre – allo Stato che si faceva padrone.
Per cui tanto nella versione dei piani quinquennali che nell’intervento pubblico in economia (lato occidente), nel contesto in particolare successivo alla sconfitta dei fascismi e alla fine dell’”accerchiamento della patria socialista”, si è ucciso nella culla il potenziale di liberazione che la centralità di nuove figure sociali (operai e contadini), di processi tecnologici altamente pervasivi (il salto tecnologico della meccanizzazione e elettrificazione è paragonabile al 4.0 di cui oggi tanto si parla, proprio in quanto innovazioni abilitanti…) consegnava alla “rivoluzione permanente”, alla ricerca cioè di una liberazione che diveniva autogestione, riappropriazione di spazi, conoscenze, potere (perché il potere è il mezzo, la trasformazione il fine, per dirla con le parole d’oggi: è giusto ambire alle poltrone, alla stanza dei bottoni, il punto è per fare cosa, come e con chi!).
E allora – al netto della parentesi su indicata che però penso tanto abbia pesato nell’esaurimento di quella specifica e storicamente determinata forma in cui si è espresso il portato ideale e programmatico del comunismo nel 900 – rimane ancora aperta, piaccia o no, una questione.
La questione.
Anche il nostro mondo nell’anno 2021 può veramente migliorare, divenire più giusto se vive di una possibilità alternativa, se i vari “poteri” si confrontano con progetti e pratiche alternative che li minaccino “realmente”.
Senza un’alternativa “di sistema” in campo, di modello di sviluppo, di relazioni sociali, di gerarchie valoriali, la “liberazione dell’uomo” dal Dio mercato, metro e giudizio della vita biologica e spirituale di tutti noi, sarà ed è impossibile.
Questa è la questione che quello specifico pensiero politico, definito comunismo, ha posto apertamente al genere umano e il suo spettro, piaccia o no, si aggira ancora per il mondo…
I 100 anni del PCI possono consegnarci, allora, tante riflessioni (pars construens). In sostanza tutte legittime e molte vere “storiograficamente” parlando e al contempo di stringente attualità: il tema dell’alfabetizzazione politica, dell’educazione delle masse e del loro inserimento nella vita democratica e costituzionale del Paese, civilizzando al contempo quella specie di “borghesia” italiana tanto contraddittoria quanto parassitaria (vero!, Tanto in versione cartacea che digitale); il tema del lavoro di massa (e tra le masse), del coniugare i bisogni materiali dell’oggi con una prospettiva di trasformazione radicale dei rapporti produttivi e sociali domani (vero!, il ruolo del lavoro come diaframma per leggere il mondo, il ruolo dei lavoratori e delle loro organizzazioni, la socializzazione del sapere, ecc.); il tema delle alleanze tra ceti, comunità, linguaggi, persone e organizzazioni come processo politico che libera energie (verissimo!, si pensi al portato dell’ambientalismo come ideologia complessiva e come forza di mobilitazione)…
Ma nessuno di questi aspetti può eludere (si preferisca poi la declinazione in termini organizzativi, istituzionali, sindacali, tecnologici, geo politici, ecc.) il fatto che un “mondo migliore era possibile” (ed è possibile) perché una grande forza politica, radicata socialmente, avanzava proposte di trasformazione li dove la ricchezza si generava e l’ottica non era meramente redistributiva e risarcitoria. Cioè si contestava il meccanismo, non solo gli effetti e si provava a realizzare modelli diversi…
Su questo la differenza ieri con una concezione social democratica (oggi, banalizzando molto, diremmo rispetto ad una terza via) era legata ad un fatto specifico (ed è qui l’attualità de “La Questione”): si contestava il modello capitalista fino all’obiettivo dichiarato di un suo superamento. La sola dichiarazione di “un oltre” era la differenza di fondo, l’energia rigenerante, la dimensione millenaria… Qualcosa in più cioè di un mero trucco “escatologico”.
Tutto ciò è riproponibile oggi con i programmi, gli strumenti, le parole d’ordine del 900?
Anche solo porre la domanda o sotto intenderla in questi termini è un “trucco”!
Con l’obiettivo, in mala fede, di consegnare alla discarica della storia non una specifica realizzazione organizzativa e politica di quel pensiero che dagli scritti marxisti in poi ha dato vita a molte forme specifiche (tra cui il PCI), ma l’intero “senso profondo”, “la metafisica della trasformazione” dello sforzo umano di migliorare il “fare e l’essere” (per prendere in prestito le parole di Gramsci”).
Per questo ritengo che sia più utile porre e porci l’altra domanda: se non si riconosce che la questione di fondo rimane ancora oggi la creazione di un altro modello, alternativo a quello esistente, per essere e definirsi “di sinistra”, riusciremo mai a trovarli questi nuovi programmi, strumenti, parole d’ordine, alleanze?
Al di dà di letture di maniera o di pragmatiche genuflessioni alle elaborazioni profonde (e oggettivamente radicali) che una rinnovata “teologia della liberazione” ci pone (e che Papa Francesco non potrà mai letteralmente esplicitare), anche con riferimento ai quei “marxisti pentiti” che piegano il pensiero neo evangelico per nascondersi dietro “ma lo dice anche il Papa” (evoluzione di quel senso di colpa per essere stati comunisti, che non ha ben donde di esistere!), il tema non è il gradualismo o meno nelle trasformazioni, non è neanche la contradditoria via alla costruzione di questa o quella alleanza politica. Non è la bontà di questo o quel passaggio politico che contrasti altri scenari inconciliabili e apertamente avversari rispetto un progetto di trasformazione in senso più socialista (è pacifico che con fascisti e sovranisti le ragioni della giustizia sociale e della libertà arretrano, anche nel campo delle teorie liberali) …
Il punto è: è ancora attuale il tema di un superamento dei processi di accumulazione, creazione e distribuzione di ricchezza, conoscenze e potere rispetto all’attuale modello di sviluppo?
E se lo è (e credo che lo sia), tattica e strategia, valori e pratica, alleanze e organizzazione (vale per un partito politico ma anche per un grande sindacato confederale) possono essere declinate a partire da questa assunzione di fondo, da questo obiettivo dichiarato?
I 100 anni dalla nascita del PCI sono un’occasione per riflettere sul mondo, su di noi e sugli altri, sugli errori (tanti), i limiti (enormi) ecc., ma possono (e dovrebbero) essere anche l’ occasione per riflettere su quel moto di fondo della storia umana per cui – sentendo l’ingiustizia verso gli altri sempre come una ingiustizia verso sè stessi e vedendo il mondo così bello da ritenere che debba non solo essere salvato ma anche che debba appartenere a tutti (e quindi a nessuno, a partire da chi deve ancora nascere) – si rigeneri un impegno, una ricerca, un’azione politica.
Non una ricerca da confinare negli angusti “limes” di questo o quell’atteggiamento morale, non come mera espressione di un proprio dovere individuale ma come, appunto “scienza politica”, cioè scienza dell’azione umana collettiva.
Corsari come avrebbe scritto il mai abbastanza letto e studiato Pier Paolo Pasolini, di una flotta che attraversa anche il tempo dell’oggi con però i “punti nave” ben chiari.
Non “Sarti di Ulm”, anticipatori e testimoni di qualcosa che deve ancora venire, ma intellettuale collettivo che si cimenta a costruire. Perché le bussole passano, ma le stelle continueranno sempre ad indicarci il Nord.
Alessandro Genovesi – attualmente Segretario Generale della Fillea Cgil. Giornalista, in passato dirigente nazionale dei Democratici di Sinistra.