La proposta di direttiva europea sull`adeguatezza salariale, è il primo intervento dell`Unione riguardante direttamente la materia del salario minimo, e segna indubbiamente un cambiamento positivo dopo che per anni si erano moltiplicate le raccomandazioni europee in questa direzione. E’ chiaro che il giudizio positivo dei sindacati europei in sintonia con la triplice sindacale italiana (CGIL/CISL/UIL) riconosce la via contrattuale rispetto a quella legislativa per la fissazione dei minimi salariali sottolineando come essenziale affrontare il nodo della rappresentanza che qui in Italia abbiamo ben presente come ancora irrisolta.
La direttiva incardina nelle misure di una strategia di resilienza il consolidamento di una adeguata politica salariale, peraltro in una fase in cui, in Italia, sono in corso i rinnovi dei contratti nazionali, e dunque di notevole importanza il livello negoziale dedicato appunto alla salvaguardia dei minimi salariali. In pratica il modello italiano non potrà più essere indicato come quello che non contempla un salario minimo legale diversamente da altri 21 Paesi europei ed è quindi in sintonia coi sindacati se l’intervento legislativo si limita a fornire una copertura salariale sufficiente (come previsto sia dalla legge n.92 del 2012, sia dal jobs act del 2014) ai settori esclusi dal sistema strutturale della contrattazione collettiva. Peraltro la Direttiva incentiva l’intervento della Commissione UE e il Comitato Europeo per i diritti sociali (Ecsr) concordemente la strategia OIL di contrastare le irregolarità relative all’equità salariale sulla base di rilevazioni di Quattordici su quindici Paesi europei che violano le regole relative all’equità salariale e alle discriminazioni di genere sul posto di lavoro stabilite dalla Carta sociale europea.
I risultati emergono da uno studio condotto dal Comitato europeo per i diritti sociali (Ecsr) I Paesi considerati sono, in ordine alfabetico, Belgio, Bulgaria, Cipro, Croazia, Finlandia, Francia, Grecia, Irlanda, Italia, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovenia e Svezia. Forzature sulla direttiva di cui trattiamo oggi dell’attuale governo che non ha mai nascosto di volersi muovere in questa direzione, pur di fronte alla contrarietà della maggioranza delle parti sociali, sono da evitare. La direttiva non obbliga ad andare nella direzione di un salario minimo stabilito per legge e neppure impone, in alternativa, di dotare i contratti collettivi di efficacia erga omnes magari con una legge sulla rappresentanza in attuazione del precetto di cui all’articolo 39 della Costituzione. E tuttavia questo non esclude iniziative in tal senso. Il diritto sindacale italiano si trova ancora una volta alle prese con un problema dal 1948 quando entrò in vigore la Costituzione repubblicana: come possono essere applicate erga omnes norme contrattuali stipulate sulla base del diritto comune? In Italia questo risultato è stato conseguito per decenni in via di fatto e secondo la giurisprudenza in applicazione dell’articolo 36 Cost.
Dunque da superare è l’ostacolo di carattere istituzionale e politico che viene posto soprattutto, ma non esclusivamente, dai Sindacati, i quali temono un indebolimento del potere negoziale e una migrazione di aziende dal CCNL al salario minimo legale. Una preoccupazione legittima, ma che non ha riscontro nelle vicende di altri stati europei a forte sindacalizzazione dove è stato introdotto il minimo legale, come in Germania. A parere di chi scrive il salario minimo è piuttosto un risultato dell’indebolimento della contrattazione collettiva e non la causa: il numero crescente di contratti c.d. pirata e il numero significativo di lavoratori pagati meno dei minimi contrattuali sollevano in effetti dubbi sulla capacità del sistema di contrattazione collettiva italiano di proteggere i lavoratori più deboli e difendere le imprese da concorrenti spregiudicati. Obbiettivamente il quasi monopolio della rappresentanza sindacale, istituzionalizzato dalla L.300 con la formule dei “Sindacati comparativamente maggiormente rappresentativi” è una formula che non regge più e richiede una più trasparente verifica, come peraltro già accettato in linea di principio dalle principali Organizzazioni Sindacali e Datoriali, in mancanza della quale non esiste alcuna possibilità legittima di conferire valore erga omnes a qualsivoglia accordo collettivo.Il conteggio degli iscritti e anche quello delle Rappresentanze Sindacali in azienda non è complicato: ci sono già le intese di massima con l’INPS. Del resto nei fatti il principio è già applicato nella contrattazione aziendale, dove l’efficacia dell’accordo è sancita dal voto a maggioranza da parte delle Rappresentanze Sindacali Unitarie o da un referendum di tutti i lavoratori. L’ostacolo insormontabile è rappresentato dall’obbligo di registrazione, che implicherebbe la costituzione dei Sindacati in Figure Giuridiche: un’ipotesi che, o per ragioni economiche legate ad obblighi fiscali e responsabilità legali CGIL CISL UIL hanno sempre rifiutato, appellandosi a principi diversi.
L’altra questione da affrontare è relativa ai minimi salariali che comunque non prescindono dalla retribuzione oraria minima e INPS ci offre una precisa rendicontazione: la retribuzione lorda oraria minima media prevista dai CCNL “regolari” era nel 2015 di 9,41 € (comprensiva di tredicesima) ma nel 2017 ben il 22% dei lavoratori percepiva meno di 9 €, con punte notevoli tra donne, giovani e regioni del Sud. Il salario orario minimo “mediano”, cioè quello che si colloca a metà strada tra il valore minimo e quello massimo, è di 11,77 €: il minimo salariale medio è dunque pari all’80% del mediano. In Francia è il 70% e in Germania il 50%, il che mostra che la curva salariale legale (al netto cioè del lavoro sommerso) in Italia è molto schiacciata, oltre a presentare valori assoluti piuttosto bassi: nel 2018 20€ medi, contro 23 dell’area Euro e 21 dell’UE. In buona sostanza noi dovremmo istituire un minimo orario di 8,22 €, che genera un mensile di 1423 €. Questo livello minimo comporterebbe un aumento per circa il 15% dei lavoratori dipendenti, e coinciderebbe grosso modo con i minimi tabellari “minimi” dei CCNL meno robusti come il trasporto e logistica.
L’introduzione di un minimo obbligatorio, di valore mediano a 8,22€, contribuirebbe ad allineare più di quanto già non siano i diversi CCNL di Categoria e le retribuzioni contrattuali nelle diverse aree del Paese. L’introduzione di un salario minimo legale avrebbe l’effetti di rafforzare gli squilibri già presenti tra valore nominale del salario e potere d’acquisto reale nelle diverse are del Paese: in Italia il potere d’acquisto dei salari è più alto nelle Regioni dove la produttività è più bassa, e viceversa, mentre in Germania il rapporto tra potere d’acquisto è produttività è diretto, anziché inverso.
Le risposte a questi problemi non possono essere che due: o stabilire minimi differenziati per territorio ed eventualmente per comparto produttivo, oppure introdurre un minimo correlato al rapporto massimo tra potere d’acquisto e salario nominale, il che porterebbe il minimo ad un livello sensibilmente inferiore agli 8,22 € ipotizzati, con il probabile effetto collaterale di incentivare la contrattazione collettiva legata alla produttività, ma non produrrebbe effetti positivi per le retribuzioni molto basse, ossia per coloro che dovrebbero essere i beneficiari del salario minimo legale. Rinunciare ad intervenire sui minimi fissati dai diversi contratti, lasciando libere le dinamiche di mercato salvo la possibilità dei singoli di rivolgersi alla Magistratura. Istituire per legge il salario minimo, tenendo conto di tutte le possibili variabili e affrontare una volta per tutte l’applicazione dell’art 39 della Costituzione della rappresentanza con i conseguenti obblighi di legge.
Alessandra Servidori (presidente nazionale TutteperItalia)