Nell’autunno del 1969, durante una riunione, nel tardo pomeriggio, dei funzionari della Fiom nazionale, una segretaria comunicò che da Crotone avevano telefonato per l’ennesima volta chiedendo che l’indomani qualcuno dei gloriosi metalmeccanici si recasse laggiù a tenere un comizio a chiusura di uno sciopero. Pio Galli fece una delle sue solite tirate. “Ancora quelli di Crotone! Se ci fosse da andare a Milano, vi mettereste tutti in fila. Ma in Calabria non vuole andare nessuno”. Io pensai che aveva proprio ragione. Per una frazione di secondo, però. Perché un attimo dopo, Pio propose che a Crotone ci andasse il sottoscritto. Non era un gesto di particolare coraggio prendersela con l’ultima ruota del carro, ma tanto fu. Trovai miracolosamente un posto su di un Fokker 27 ad elica (credo fosse dell’Itavia) in partenza alle 22,30 da Ciampino. Arrivai nel cuore della notte e finii in un albergo a preparare un discorso che sarebbe andato bene a Torino, davanti ad un cancello della Fiat. Compresi quella volta quanto le problematiche in uso nel sindacato fossero lontane dalle questioni sentite come gravi nelle regioni del Sud. Anni dopo, anche per esperienza diretta (per un certo periodo sono stato, nella segreteria della Cgil, responsabile delle politiche per il Mezzogiorno) maturai la convinzione che del Mezzogiorno al sindacalismo italiano importasse molto poco. Il giorno dopo quell’avventura, però, mi aspettavano altre sorprese.
La mattina venne a prendermi in albergo il segretario della Camera del lavoro locale. Mi avevano svegliato gli altoparlanti che chiamavano allo sciopero generale, non solo i lavoratori, ma anche i commercianti e i contadini. La piattaforma contrattuale dei metalmeccanici veniva appena nominata. Le ragioni dello sciopero era altre: lo sviluppo, l’occupazione e tante altre parole d’ordine di carattere generale. Insieme al mio interlocutore mi recai in un bar a fare colazione e ad attendere i colleghi delle altre organizzazioni. Ogni tanto mi presentavano a qualcuno, definendomi “l’esponente nazionale”. Poi, dopo aver assistito ad un battibecco tra i sindacalisti sulle procedure della manifestazione, salii sul palco e cominciai il mio comizio (un discorso che non c’entrava nulla in quella situazione). Ad un certo punto, in fondo alla piazza ci fu del movimento, come se fossero in corso degli incidenti. Quelli che erano alle mie spalle mi incitarono a continuare a parlare, dire alla gente di stare tranquilla e non accattare provocazioni. Io seguii le indicazioni. Poi tutto si sistemò d’incanto. A me, però, era rimasta la curiosità. Anche perché temevo di essere io la causa delle contestazioni. In quei tempi, erano frequenti le incursioni dei tanti gruppuscoli sinistrorsi. Ma non avrei mai pensato di trovarmeli a Crotone (dove c’era soltanto una fabbrica metalmeccanica di un certo rilievo). Finito il comizio, volli chiedere spiegazioni. Inutilmente però. I sindacalisti locali erano assolutamente laconici ed evasivi. Ma io non mi persi d’animo. Il collega della Cgil doveva recarsi a Catanzaro per partecipare ad una riunione regionale della Federbraccianti. Andando con lui (del resto non c’erano alternative se non l’autostop), avrei trovato Sante Moretti, un comunista ravennate finito alla Federazione nazionale. Di lì, io e il dirigente dei braccianti saremmo stati portati a Paola in tempo per prendere il Peloritano (una sorta di treno ad Alta velocità di quei tempi che andava da Palermo a Roma e viceversa) , che ci avrebbe consentito di rientrare a Roma in orario decente. Una sorta di staffetta di sindacalisti. Durante il viaggio in auto dalla costa ionica all’interno, lungo superstrade allora deserte, tornai all’assalto del mio interlocutore per sapere cosa era successo in piazza.
Il suo racconto mi gelò il sangue. Era scoppiata una lite tra un negoziante (che non aveva chiuso i battenti) e alcuni scioperanti, al punto tale che qualcuno aveva messo mano alle pistole. “Sai – aggiunse – da noi c’è la Mafia, così la gente gira armata”. Alla vista del mio stupore, non esitò ad infierire. “Il capo della cosca è quello che ti ho presentato stamattina nel bar”. E cercò di farmi capire – inutilmente – quale fosse tra le tante persone alle quali avevo stretto la mano, scambiando qualche parole di cortesia in risposta ai loro convenevoli. Io caddi letteralmente dalle nuvole e me la presi anche. Ma come ? Un poveraccio si precipita in quest’area sperduta del mondo e la prima persona che gli presentano – a tradimento – è un mafioso ?! Il mio interlocutore mi guardò col fare di chi sta perdendo tempo con uno che non ha capito nulla. E chiuse il discorso. Arrivato a Catanzaro, attesi che finisse la riunione dei braccianti, poi mi recai a pranzo con loro. E volli raccontare, con dovizia di particolari, la vicenda del mattino al mio conterraneo, Moretti, il quale non fece una piega. Il suo commento a voce alta mi lasciò ancora più interdetto. “Qui è normale girare armati: questi che vedi interno al tavolo lo sono tutti”. I commensali sentirono quelle parole e non batterono ciglio. Capisco adesso, andando a rimestare tra questi ricordi, che in ogni italiano, nato sopra la Linea Gotica, si nasconde – purtroppo – un piccolo leghista, intriso di pregiudizi sbagliati. Ho riflettuto molto sull’incontro, a mia insaputa, col boss. Se qualcuno avesse fotografato la nostra stretta di mano io non avrei fatto una bella figura. Ma ho compreso in seguito che il funzionario locale della Camera del Lavoro di Crotone che mi presentò al capo mafia del posto non era affatto colluso: per lui il caporione rappresentava un componente dell’establishment sociale e la sua organizzazione era integrata in quella comunità. Si trattava, pertanto, di una realtà di cui tenere conto, magari senza connivenze o compromessi, ma anche con tutta la diplomazia necessaria ai protagonisti di una “guerra fredda”, che si dividono il medesimo campo d’azione. Il sindacalista sapeva di dover fare i conti con la mafia, la quale a sua volta operava in una società in cui esistevano anche i sindacati, i partiti e quanti altri avevano una qualche voce in capitolo. Al punto che il caporione mafioso (non aveva certo il badge puntato sulla giacca), quella mattina, aveva portato, a modo suo, la solidarietà ai lavoratori in sciopero. Non si può sempre fare la guerra: anche perché, in situazioni tanto intrecciate, si rischia di spararsi sui piedi.