Confindustria ha più volte sostenuto che è necessario legare la crescita dei salari a quella della produttività. Credo sia una sfida che va raccolta dal sindacato, tanto più che la produttività e i salari sono insopportabilmente fermi da decenni. Ma accettare la sfida significa concordare gli strumenti per affrontarla sul serio. Se la struttura contrattuale che Confindustria continua a proporre prevede che solo la contrattazione aziendale possa distribuire salario legato alla produttività, quella sfida è già persa in partenza e da entrambe le parti. Poiché la contrattazione aziendale vera si fa in una piccola minoranza di aziende (12,9% del totale, 17,9% dell’industria) e interessa non più di 3 milioni di lavoratori dipendenti, di cui 2 nell’industria in senso stretto(1), di cosa stiamo parlando? Non può essere questo il motore che trascina verso l’alto insieme salari e produttività, tanto meno se gran parte degli aumenti retributivi è elargito sotto forma di “welfare” contrattuale.
I Ccnl firmati negli ultimi anni, infatti, distribuiscono quote di ricchezza (seppure in misura diversa) già negli incrementi previsti a livello nazionale. Se non si vuole che sia il Ccnl il baricentro in cui si concordano aumenti retributivi legati alla crescita della produttività, bisogna pensare a una sede nuova, che ospiti la sfida per coloro che non hanno il contratto aziendale (in genere la stragrande maggioranza delle imprese di piccola e media dimensione e la stragrande maggioranza delle imprese del Mezzogiorno).
La sede nuova potrebbe essere quella territoriale (di settore o di area) che misura gli indicatori economici del territorio, concorda una quota di incremento retributivo e affida alla volontà delle imprese e dei sindacati l’adesione all’accordo. L’obiezione che distribuire quote di crescita media della produttività è un’approssimazione non realistica delle dinamiche reali non è così forte come sembra, visto che molte esperienze di categoria e gli artigiani applicano da anni la contrattazione territoriale. Senza questo allargamento della base della contrattazione di secondo livello l’idea di legare fra loro la crescita di salari e produttività è solo uno slogan.
Vi sono altre due considerazioni da fare se si crede davvero a questa ipotesi. La prima riguarda soprattutto il versante delle imprese, la seconda quello dei sindacati. La produttività non è solo dipendente da fattori interni all’impresa ma anche da fattori esterni. Basti pensare alle infrastrutture, alla logistica, alle ICT, alla formazione, allo smaltimento dei rifiuti, alla gestione dell’acqua, alla produzione di energia elettrica rinnovabile a prezzo competitivo, alla manutenzione del territorio.
Non stiamo parlano quindi di un neo corporativo “Patto per la fabbrica”, come Confindustria lo ha definito, quanto di una stagione contrattuale che per essere propulsiva ha bisogno di investimenti sull’ efficienza esterna all’impresa. Ha bisogno di un soggetto pubblico meno osservatore passivo delle relazioni industriali. Di un soggetto pubblico che non spenda i soldi in decontribuzioni a pioggia ma nell’ammodernamento del paese. Anche su questo tema Confindustria non può limitarsi alle dichiarazioni di principio e incassare i benefici fiscali fingendo di non capire cosa sono l’innovazione e l’efficienza diffuse.
La seconda osservazione riguarda le politiche retributive dal lato del sindacato. A grandi linee si può dire che le politiche retributive realizzate dagli anni 60 in poi dal sindacato italiano sono di 3 diverse tipologie.
La prima ha riguardato la fase dell’autunno caldo con incrementi monetari elevati (spesso, ma non sempre, uguali per tutti) che hanno riscattato un lavoro operaio fino a quel momento stabile ma povero.
La seconda tipologia, durata fino a metà degli anni 80, affidava gli incrementi retributivi più costanti e significativi al recupero automatico di una parte di inflazione (il punto unico di scala mobile).
La terza tipologia di politica retributiva intrapresa negli anni 90 attribuiva gli incrementi a un nuovo sistema contrattuale e alla cosiddetta “politica dei redditi”. Ognuna di queste esperienze ha mostrato limiti oggettivi e soggettivi.
In estrema sintesi: l’egualitarismo ha prodotto appiattimento, l’automatismo ha generato inflazione (reale e attesa), la politica dei redditi ha aumentato il peso politico del sindacato ma ha indebolito la sua funzione di agente contrattuale. Se aggiungiamo a questi dati il fatto che le dinamiche interne ai contratti hanno da sempre privilegiato l’anzianità anziché la produttività, abbiamo completato il quadro. Sempre generalizzando una materia molto varia, si potrebbe dire che il sindacato italiano non è “specializzato” in rivendicazioni salariali ma si è affidato (tranne la parentesi dei Consigli di Fabbrica) soprattutto agli automatismi.
Sia nel dopoguerra (il Piano del Lavoro di Di Vittorio), sia alla fine degli anni 70 (la svolta dell’Eur), sia nelle riorganizzazioni industriali degli 80, sia nella concertazione dei 90, sia oggi nella crisi, il sindacato italiano, soprattutto la Cgil, che è un sindacato “generale” e non di mestiere, ha sempre privilegiato l’obiettivo della crescita e della tutela occupazionale, proponendosi, anche in esplicito, una certa “moderazione” salariale pur di favorire l’occupazione. Dall’altra parte le imprese italiane hanno preferito per qualche decennio migliorare la propria competitività dal lato dei costi invece che da quello degli investimenti in qualità, innovazione, produttività.
Il risultato combinato di questi fattori oggettivi e soggettivi è il crollo della produttività e degli investimenti dalla metà degli anni 90 e la forte riduzione della quota di reddito che va al lavoro. Inizialmente questo equilibrio al ribasso favoriva livelli stabili di occupazione; da più di dieci anni invece oltre alla caduta di reddito da lavoro, investimenti e produttività, si registra (amplificata dalla crisi) la riduzione dell’occupazione, la sua precarizzazione e svalorizzazione, la diffusione di salari da lavoro che producono povertà.
Se davanti a noi vi fosse una alternativa netta tra battaglia per far crescere i salari o battaglia far crescere l’occupazione, non c’è dubbio che il sindacato italiano opterebbe (pur con qualche conflitto interno) per la seconda, poiché la priorità lavoro è da sempre iscritta nel suo Dna.
Ma è un’alternativa reale quella tra salari e occupazione? Abbiamo visto che nel recente passato gli indicatori di salario, produttività e occupazione sono calati insieme. E nel futuro?
Sul versante economico non c’è dubbio che è in corso una ripresa. Si tratta tuttavia (al di là della sua dimensione) di una ripresa dell’attività produttiva trainata prevalentemente dalla domanda estera. Una specie di onda lunga della crescita media (più alta) nel resto d’Europa. Per ora gli effetti sull’occupazione e sui salari sono pressoché nulli.
Per la ripresa della domanda interna, senza della quale non ci sarà crescita stabile né del reddito né del lavoro, è necessario, per definizione, rilanciare gli investimenti e i consumi. Una politica salariale più vivace e una spesa pubblica proattiva degli investimenti privati possono facilitare il passaggio da una ripresa congiunturale dipendente dall’estero a una più stabile e solida. Il Governo sbaglia se pensa che basti finanziare le imprese e il welfare aziendale perché ci sia sviluppo: occorre invece creare nuovi mercati interni.
Sul versante del lavoro e dell’occupazione si profilano alcune tendenze (non congiunturali) ormai ben percepibili. Prima di tutto la polarizzazione del mercato del lavoro tra l’aumento dei lavori poveri (di competenze e di retribuzione) e quello, trainato dalle nuove tecnologie, dei lavori ad alto contenuto di sapere. Ha perso peso il “ceto medio” operaio, quello meglio rappresentato dal sindacato e più abituato alle battaglie collettive. La rivoluzione digitale 4.0, al di là dei suoi effetti sui livelli occupazionali netti, probabilmente accentuerà questa polarizzazione.
Anche in questo caso, a mio parere, è necessaria una politica retributiva esplicita di parte sindacale. Per evitare la perdita di rappresentatività delle fasce basse e la presunta autorappresentanza di quelle alte.
Certo, è necessaria una politica salariale “articolata”, come si direbbe in gergo sindacale. Per le fasce basse la priorità è quella di garantire ovunque retribuzioni che recuperino i minimi contrattuali per tutti: distinti per paga oraria, settimanale, mensile. Poiché si diffondono i lavori pagati senza rispetto dei contratti collettivi. Per le fasce alte, dove le competenze del lavoro fanno la differenza, si dovrebbero immaginare minimi retributivi (e massimi di orario) per almeno quelle figure che hanno un rapporto di lavoro dipendente mascherato da autonomo. Per le categorie professionali centrali (regolate dai contratti) gli incrementi retributivi dovrebbero essere affiancati da percorsi professionalizzanti per evitare un progressivo scivolamento verso il basso di quelle figure.
Il luogo più opportuno per porre la prima questione è forse una sede di confronto intercategoriale, che guarda alla possibilità di prefigurare retribuzioni minime per legge e denunciare come rapporti di lavoro illegali quelli che non le rispettano. Le altre sono più naturalmente adatte a tavoli di contrattazione nazionali di settore e decentrati in azienda e nel territorio. Purché si avvii una stagione di vertenze retributive che affianchi quella per i diritti e per il lavoro. E per un fisco che non penalizzi il lavoro.
Per ritornare alla sfida produttività/salari da cui siamo partiti, si potrebbe dire che l’unica garanzia che le imprese investano davvero in tecnologie e sistemi organizzativi per far crescere la produttività è quella di avviare al più presto una stagione contrattuale di crescita delle retribuzioni. Ricevere un salario dignitoso è un diritto primario dei lavoratori! Non sembri questa una estremizzazione sindacale. Lo dicono molti organismi nazionali e internazionali di analisi economica (2).
1. Fondazione Giuseppe Di Vittorio, Contrattazione integrativa e retribuzioni nel settore privato, a cura di Lorenzo Birindelli.
2. Secondo l’indagine sui redditi di lavoro della Banca d’Italia, la quota del Valore Aggiunto che va al lavoro scende in Italia dalla metà degli anni 70 fino al 2000 (dal 62 al 53%), risale di un punto per riduzione del Valore Aggiunto dal 2000 al 2008 e torna a calare fino ad oggi e tendenzialmente fino al 2020 (Riccardo Sanna 2016). Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali, dal 1970 la quota del reddito da lavoro si è ridotta nell’economia totale e ancor di più nel settore manifatturiero, con i salari che dal 1980 sono costantemente cresciuti meno della produttività. Le “richieste salariali sono più in ritardo sul ciclo economico di quanto avvenuto in passato” (BRI 2017).