Lo scorso 20 settembre il Diario del lavoro ha pubblicato un ottimo articolo di Gaetano Sateriale che reclama l’apertura di una nuova fase di politiche salariali espansive. L’articolo esce a distanza di cinque mesi esatti dalla data in cui tre studiosi di economia del lavoro e relazioni industriali (Giuseppe Bianchi, Sebastiano Fadda e il sottoscritto) hanno consegnato alle tre confederazioni sindacali, in una cerimonia ufficiale tenuta presso la sala Buozzi della Uil, il documento “Per una ripresa di politiche salariali espansive”. Il documento, frutto di un lungo percorso di audizioni di rappresentanti sindacali di categoria, organizzato presso la Link Campus University grazie all’ospitalità di Enzo Scotti, con la collaborazione dei segretari confederali Franco Martini (Cgil), Gianni Petteni (Cisl) e Tiziana Bocchi (Uil), è ancora inedito ma ha circolato all’interno delle confederazioni ed è in corso di pubblicazione sulla rivista “Economia & lavoro”.
Come ho sostenuto ormai da molti anni, in articoli scientifici ma anche dalle meritorie colonne di “Affari e finanza” di Repubblica, la questione salariale riveste in Italia una caratterizzazione del tutto particolare in quanto deriva in buona sostanza dal real wage cap, ovvero dal tetto alla crescita delle retribuzioni reali imposto da una contrattazione decentrata troppo poco diffusa e, ove presente, troppo debole per consentire una crescita significativa del potere d’acquisto dei redditi reali e, con essa, dei consumi, degli stessi investimenti, e quindi della domanda di lavoro e dell’intera economia.
Sateriale riconosce che, data la polverizzazione del sistema produttivo italiano (quattro milioni di microimprese su 4,4 milioni di imprese in totale), l’unica possibilità concreta di sviluppo della contrattazione decentrata, e quindi di “togliere il tappo” alle retribuzioni reali, risiede in un’ampia diffusione della contrattazione territoriale. E il riconoscimento che lo sviluppo della contrattazione territoriale sia l’unico strumento, nel quadro dell’ordinamento contrattuale vigente, in grado di produrre un’espansione significativa della contrattazione decentrata, costituiva già una delle conclusioni forti della Commissione Giugni, incaricata da Prodi nel 1997 (esattamente 20 anni fa!) di realizzare una verifica del funzionamento del Protocollo del 1993.
Va anche ricordato che Paolo Sylos Labini si è inutilmente battuto per vent’anni (le sue pubblicazioni sul tema spaziano dal 1984 al 2004) per far comprendere a tutti la portata delle analisi di Adam Smith e David Ricardo (ma poi anche di Verdoorn, Kaldor e Okun), che la crescita della produttività dipende, secondo diversi canali di attrazione e di spinta, dalla crescita dei salari e del costo del lavoro, e non viceversa. Ragione per la quale una delle ragioni principali del “male oscuro” della modestissima dinamica della produttività che affligge dal 1995 l’economia italiana risiede proprio nella stagnazione dei salari reali.
La ricchezza non si crea perché i salari sono bloccati dal real wage cap dell’assenza di contrattazione oltre l’inflazione: i salari bloccati bloccano i consumi e i consumi bloccati fanno fallire le imprese e bloccano gli investimenti (ben pochi investono in un paese che non cresce). Infine, gli investimenti bloccati rendono le imprese meno competitive e più fragili, pronte a cadere come un castello di carte al primo soffio di un vento di crisi. Sono dunque i salari reali bloccati a rendere le imprese fragili e non la fragilità delle imprese ad obbligare il blocco dei salari.
La mia chiosa al ragionamento di Sateriale, mutuata dall’insegnamento di Sylos Labini, è che, ai fini del buon funzionamento del sistema economico, la ‘frusta salariale’ (wage whip) conta quanto la tutela della concorrenza. E forse anche più, perché un paese che poco si affida alla concorrenza, se vuol crescere senza gravarne l’onere interamente sulla mano pubblica, deve affidarsi in misura assai maggiore alla frusta salariale come elemento di pungolo al continuo ammodernamento di prodotti e processi.
Leonello Tronti