La cosa più inutile da fare per aumentare i salari è lanciare campagne o invocare “fruste” (i riti “propiziatori” di cui parlava il grande Ezio Tarantelli). Non credo che qualcuno pensi che i salari in Italia siano troppo alti. Proprio perché il paradosso italiano è salari bassi e Clup (costo del lavoro per unità di prodotto) alto, la soluzione del problema non ammette proclami o scorciatoie. Se si banalizza una questione così seria e urgente, pensando che l’aumento delle retribuzioni sia come un rubinetto a cui basta il convincimento per essere aperto, allora il dibattito, oltre che grave, diventa non serio, in un gioco in cui gli interlocutori, più che aumentare i salari, si candidano al “io l’avevo detto”.
Ecco, nessuno ha bisogno di essere convinto di quanto sia importante la crescita dei salari. Il tema vero è il “come”. Se siamo d’accordo (e ho qualche dubbio) a legare i salari alla produttività, dobbiamo sapere che la produttività si realizza in azienda (certo anche per fattori esterni all’aziende) e li va distribuita. La produttività media a livello nazionale è in quasi tutti i settori industriali negativa, perche’ risente del dualismo tra aziende innovative che esportano e aziende in difficoltà, ripiegate sul mercato interno. Distribuirla, a livello nazionale, equivarrebbe a realizzare la ben nota media del pollo: cioe’ redistribuirebbe meno del dovuto nelle aziende che vanno bene, e più del giusto e possibile alle aziende in difficoltà.
Certo, si puo’ obiettare che c’è la “produttività di sistema”, non sempre con performance migliori; ma sfido chiunque a convincere un’impresa a distribuire una cosa di cui non dispone e di cui spesso anzi soffre. Certo, chi pensa che bisogna chiudere con gli sgravi alle imprese che assumono con lavoro stabile, innovano l’organizzazione del lavoro con tecnologie o fanno formazione continua, palesemente dimentica che in questo paese gli investimenti privati sono scappati dalle imprese verso la rendita, la speculazione o oltre confine.
Ambiguità che abbiamo iniziato ad affrontare nel Contratto dei metalmeccanici.
L’aumento dei salari, di per se, non aumenta la produttività come non è vero, vista la bassa incidenza sul clup, che i salari sono il problema della produttività.
Sarà paradossale, ma se abbandonassimo dogmi e totem, ci accorgeremo che le politiche dell’offerta hanno contribuito di più all’aumento dei salari, più che di quelle della domanda (bonus e politiche espansive spot). Queste politiche hanno svolto i Governi dei paesi in cui i salari sono cresciuti di più. Credo che anche John Maynard Keynes, se avesse vissuto i nostri giorni e non il dopoguerra, e un’economia aperta come oggi, ce lo avrebbe confermato.
Nei metalmeccanici, secondo i dati di Federmeccanica, la contrattazione aziendale interessa il 37% delle aziende, dove però lavora il 70% della categoria. Significa che non arriviamo nelle piccole.
La consapevolezza della propria parzialità è sempre un segno di buon senso e pensare che la contrattazione risolva tutti deficit di competitività della produttività non è utopico: è ridicolo.
I salari, nei casi dove incidono di più, non superano il 17% del costo del lavoro. Nella contrattazione che ha riportato le produzioni in Italia, ci siamo occupati di organizzazione del lavoro, di formazione e in qualche caso abbiamo fatto fronte comune con le imprese sulle carenze territoriali in burocrazia, formazione, infrastrutture, accesso al credito, costo dell’energia e perché no, lotta alla criminalità. Insomma, sappiamo fare la nostra parte per rendere meno ostile l’habitat per chi vuole continuare o iniziare a fare impresa in modo onesto e sostenibile.
Sostengo da tempo la Contrattazione Territoriale, e dunque non posso che condividere quanto espresso da Gaetano Sateriale su questo tema; ma bisogna fugare il rischio che venga interpretata come Confindustria fa (impropriamente), e cioe’ come un terzo livello contrattuale. Purtroppo. da Confindustria l’unica proposta operativa certa è il divieto di contrattazione territoriale.
I dati del Clup italiano (si veda i grafici di Prometeia) dimostrano che sopra i 200 dipendenti andiamo meglio dei tedeschi, ma sotto i 20, e ancor peggio sotto i 10 dipendenti, i dati sono disastrosi. Il problema è che abbiamo poche imprese sopra i 200 e la gran parte sotto i 20.
Bisogna valorizzare il dato secondo cui le aziende che iniziano a superare i 15 dipendenti sono in crescita; ma il problema è che le altre non godono buona salute. Il problema è che continuiamo ad esaltare quelli che in realtà sono i motivi per cui le aziende non crescono.
Un esempio: se un’impresa può crescere e aumenta solo i dipendenti, ma non cambia modello produttivo e di business, fortemente familiare, finisce male. Basti considerare, peraltro, la parabola del capitalismo familiare italiano, i disastri che sta producendo nei cambi generazionali. Non solo: in Germania ogni posto di lavoro creato nel manifatturiero innovativo ne genera tre nei servizi collegati (e non il contrario); in Italia questo moltiplicatore è più fiacco, e se va bene ne genera uno, per problemi di habitat ostile, ma anche dell’ alto numero di piccolissime imprese.
La contrattazione territoriale può aiutare ad agganciare le imprese a progetti comuni di innovazione, a costruire quella massa critica in grado di accettare le sfide. I miglioramenti di produttività vanno ridistribuiti, non uniformemente ma proporzionalmente ai risultati raggiunti. Del resto, da tempo, in molti gruppi industriali, i siti o i reparti hanno ricadute salariali diversi, previsti proprio dal contratto aziendale. Pensate a che sfida rappresenterebbe per sindacati, imprese, associazioni di categoria da riportare nel territorio, dopo la iper centralizzazione di tutti i tavoli di crisi.
I salari sono bassi, e’ vero, ma usare in Italia le ricette di Francia e Germania è fuorviante. In quei paesi il 90% dei lavoratori non lavora in aziende sotto i 20 dipendenti come da noi. Ho avuto modo di spiegare alla nostra Federazione Europea IndustriALL che parlare di decentramento contrattuale da noi può essere positivo (in altri paesi ha impatti diversi) pertanto è bene evitare campagne contro tale processo.
Per questo ha ancora senso pensare ad un contratto nazionale come cornice di garanzia, e contratti aziendali o territoriali, un sistema previsto – ma mai riconosciuto, come ricorda il Prof. Leonello Tronti- già dal protocollo del ’93. E, posso dirlo, fallito anche perché abbiamo per troppo tempo pensato che il Contratto Territoriale fosse un contratto aziendale dilatato nel territorio.
Non solo, quel protocollo del 1993 conteneva un “ma anche” di troppo, cioe’ sul dove distribuire la ricchezza. Siamo tra i pochi paesi al mondo in cui, giustamente, esistono 2 livelli contrattuali; ma la sovrapposizione tra i 2 livelli (e in assenza della territoriale) che quel Protocollo ha incentivato, ha alla fine indebolito sia i Contratti Nazionali che quelli aziendali. Su questo aspetto, siamo intervenuti nel Contratto dei metalmeccanici firmato il 26 novembre del 2017. E da alcuni segnali di queste settimane, in alcune province del nord, sono le imprese a tentare di violare quanto sottoscritto.
Il vero problema è -come proprio sul Diario del Lavoro, qualche tempo fa scrisse il Prof. Michele Faioli, nel bellissimo articolo “la maledizione del secondo livello”- che il decentramento contrattuale in Italia ha pochissimi veri sostenitori. E le prime a sostenere un solo livello e rigorosamente quello nazionale sono la stragrande maggioranza delle imprese. Perché? È semplice: perché è meno impegnativo, non prevede nessuna partecipazione in azienda.
Non condivido l’idea del salario minimo legale. In Italia il minimo contrattuale determinato dai Contratti Nazionali, quelli veri, che sono comunque troppi (se vi aggiungiamo quelli pirata graziati dall’assenza di regole sulla rappresentatività delle associazioni datoriali, arriviamo a 815) ha un tasso di copertura al di sopra dell’80%: ben più alto della copertura del salario minimo legale degli altri paesi europei. Sono invece molto favorevole al salario minimo legale per i settori non coperti dai Contratti collettivi. E’ un 15% di lavoro povero, in cui si cimentano tanti Gig workers o tanti nuovi e vecchi lavori a part-time e sottopagati.
L’esperienza tedesca con 4 livelli salariali indipendenti (non contrattuali) non è un buon esempio da seguire. Il minimo legale di 8,5€, il contratto di lander, il contratto aziendale, i regolamenti unilaterali aziendali. Al lavoratore, un solo livello di questi si può applicare. Il risultato è che la contrattazione, di lander o aziendale, è scesa dall’80% di 15 anni fa al 35%. Attuale. Del modello tedesco importerei piuttosto, e volentieri, la codeterminazione, quella aziendale. E credo che il sindacato tedesco, che ha chiesto il minimo legale a copertura dei lavori poveri, successivamente abbia visto parecchi sconfinamenti. Il vero punto di forza in Germania è stato l’accordo di Pforzheim del 2004, che prevedendo la possibilità di deroghe contrattuali, ha impedito le delocalizzazioni durante la crisi pesante dei primi anni 2000, in cambio di investimenti e difesa dell’occupazione, per poi far ripartire i salari. Esattamente quello che abbiamo fatto in Fca.
Oggi stiamo lavorando alla contrattazione 4.0, e una cosa è certa: ci saranno due tempi, il primo per la gestione della transizione, il secondo generativo di nuove relazioni industriali. Il tema di fondo, oltre ai contenuti, sarà il “dove” contrattare. Io non ho dubbi, la contrattazione dovrà essere sempre più “sartoriale”, come saranno le produzioni, di rete e di prossimità. Servono cornici di garanzia, ma se vogliamo far pesare il potere del lavoro in modo virtuoso è in azienda che bisogna partecipare. In caso contrario, continueremo a non intercettare nei salari i guadagni di produttività.
La questione è complessa e non risolvibile solo con la contrattazione. Immaginare che la colpa sia imputabile ad analisi sindacali sbagliate o al nostro “moderatismo salariale” è banale. Abbiamo, come tutti, tante responsabilità, ma questa no.
Per concludere: la discussione sulla politica salariale è utile ma non ammette scorciatoie. Altrimenti, la frusta invocata dall’amico Leonello Tronti rischia di essere un frustino accademico di lontana memoria, utile più ai “ci voleva” che alle buste paga dei lavoratori.
Marco Bentivogli, segretario generale Fim Cisl