Il documento BFT (Bianchi, Fadda, Tronti) sulla contrattazione collettiva e la dinamica salariale è stato oggetto di confronto con diversi esponenti delle organizzazioni sindacali e di vari interventi ospitati anche in questa testata. Vorrei a mia volta contribuire al dibattito mettendo in luce alcuni aspetti che, pur non essendo esplicitamente menzionati nel documento, sono tuttavia, a mio parere, fondamentali per inquadrare correttamente il problema.
La considerazione fondamentale che mi sembra opportuno fare riguarda la necessità di tenere ben presente che la problematica della dinamica salariale contiene due aspetti: uno è relativo al ruolo dei salari nella distribuzione del reddito prodotto; l’altro è relativo al ruolo dei salari nella propensione delle imprese ad innovare e quindi nella crescita della produttività.
Del primo aspetto si è abbastanza consapevoli; ma anche qui è necessario distinguere due profili, o due prospettive di analisi: la prospettiva microeconomica e la prospettiva macroeconomica. Sotto il primo profilo, che è quello più avvertito dalle imprese, non si può certo negare che il livello dei salari costituisca una componente fondamentale (che assume peso diverso all’interno dei costi totali a seconda dei processi produttivi adottati dall’impresa) del costo di produzione. Pertanto una sua crescita, ferme restando tutte le altre condizioni (ceteris paribus), produce una contrazione dei profitti o/e una crescita dei prezzi. Ma ciò riguarda le variazioni del livello dei salari, non dice nulla su quale debba essere il livello dei salari (lasciamo perdere la vecchia pretesa di corrispondenza col prodotto marginale del lavoro!).
Robert Solow diceva che i salari, essendo una istituzione sociale, si stabiliranno al livello che la società riterrà appropriato secondo la propria scala di valori. Ma non c’è dubbio che, essendo i salari una voce di costo per le imprese, queste tenderanno sempre a tenerne quanto più possibile basso il livello e quando i lavoratori saranno deboli dal punto di vista del potere contrattuale e della capacità di influire sulla cultura del momento i salari subiranno di conseguenza una pressione verso il basso. Ma questo comportamento corrisponde veramente all’interesse delle imprese? Un grande imprenditore che ha avuto un certo successo e che non era certamente tenero con i sindacati non la pensava esattamente così. “Riducendo i salari – diceva rivolgendosi agli altri imprenditori – ridurrete il numero dei vostri acquirenti. Se un datore di lavoro non fa beneficiare della sua prosperità coloro che ne sono gli artefici, presto non ci sarà più alcuna prosperità da condividere. Ecco perché pensiamo che sia un buon principio industriale quello di innalzare sempre i salari e mai di ridurli. Ci piace avere molti acquirenti. Salari insufficienti nuoceranno all’industria con maggiore impatto di quanto nuoceranno alla mano d’opera”.
E ancora: “ Le crisi commerciali sono determinate dall’indebolimento del potere di acquisto del pubblico. Questo indebolimento proviene dalla incertezza e dal decremento dei redditi. Il rimedio consiste nel rafforzare il potere di acquisto la cui fonte risiede principalmente nei salari”. Henry Ford scriveva queste cose nel 1926; la sua esperienza pratica gli dettava queste considerazioni ben prima che la nozione di “domanda effettiva” fosse sviluppata nella Teoria Generale di Keynes. E questo costituisce il secondo profilo con cui la problematica salariale deve essere affrontata: quello, appunto, macroeconomico. Se è un errore considerare il salario come una variabile indipendente dai conti dell’impresa, altrettanto erroneo è considerarlo come una variabile indipendente dal legame con la domanda aggregata e con la crescita.
Per quanto riguarda la dinamica dei salari, l’evoluzione storica presa in considerazione da Bowley mostra che, una volta determinate le quote distributive per un dato livello dei salari, la distribuzione funzionale del reddito non cambia se il tasso di crescita dei salari è uguale al tasso di crescita della produttività del lavoro. Ma questa cosiddetta “legge” è da intendersi come una identità statistica piuttosto che come una regola di comportamento. E infatti l’evidenza empirica relativa ai paesi sviluppati ci rivela nell’ultimo ventennio un tasso di crescita dei salari inferiore al tasso di crescita della produttività del lavoro, con conseguente contrazione della quota dei salari sul reddito.
Qualunque sia il legame quantitativo pensato tra dinamica salariale e dinamica della produttività il problema è come far sì che questo venga realizzato attraverso la contrattazione collettiva. Nell’attuale struttura della contrattazione collettiva in Italia questo compito è attribuito alla contrattazione di secondo livello. Ma proprio qui sta il problema: come è ben noto, questa è poco diffusa e tale rischia di rimanere date le caratteristiche del sistema produttivo italiano dominato da imprese di piccola dimensione. Un aiuto alla sua diffusione può venire dallo sviluppo della contrattazione territoriale. Ma anche in questo caso c’è bisogno di creare incentivi per indurre le parti a concludere accordi contrattuali decentrati di collegamento tra dinamica salariale e andamento della produttività. E’ chiaro che deve trattarsi di variazioni del livello dei salari e non delle varie forme di “premi di produttività”.
Il vecchio incentivo introdotto sotto il nome di “elemento di garanzia” si è rivelato essere in realtà un disincentivo. Per funzionare da incentivo esso dovrebbe essere né troppo basso (per non indurre la parte datoriale a non dar luogo alla contrattazione decentrata) né troppo alto (per non indurre la controparte lavorativa a non a concludere tali accordi). Quindi dovrebbe essere pressappoco pari a quanto determinato dall’andamento della produttività. In questo senso un’ipotesi di lavoro potrebbe essere quella di incorporare nei contratti di primo livello una parte relativa agli aumenti salariali che entri in vigore solo nelle imprese per le quali non si concludano accordi di secondo livello; ovviamente tale parte dovrebbe essere articolata per classe dimensionale e per territorio.
Tuttavia la “convenienza” a realizzare la contrattazione decentrata dovrebbe provenire anche da altri due elementi: la possibilità che questa offre di regolare con negoziazione collaborativa tutta una serie di altre variabili relative al rapporto di lavoro e alla sua organizzazione nell’impresa sviluppando forme di partecipazione responsabile; la possibilità di coinvolgere in una sorta di “patto sociale territoriale” i governi locali e una serie di altri soggetti (dalle Camere di Commercio ai Centri di Ricerca) in un impegno coordinato diretto a migliorare tutti i fattori esterni alle imprese che ne influenzano la produttività e la competitività. Si potrebbe anche aggiungere che il secondo livello meglio si presta ad accogliere tutte quelle nuove articolazioni delle relazioni industriali a livello di impresa che l’evoluzione dei contenuti del lavoro e della organizzazione del lavoro richiede nella prospettiva della cosiddetta quarta rivoluzione industriale.
Quanto detto sin qui riguarda il primo aspetto del ruolo dei salari, quello distributivo. Il secondo aspetto riguarda il loro impatto sulla dinamica della produttività, ed è altrettanto, se non addirittura più, importante benché sia generalmente trascurato con risultati pesantemente negativi per l’andamento dell’economia. Una mia proposta avanzata da tempo a riguardo di questo aspetto consisteva nell’agganciare, nei contratti di secondo livello, la dinamica salariale non al tasso di crescita della produttività realizzato, ma a una sorta di tasso “programmato” di crescita della produttività. La ragione di questa correzione sta nel fatto che il primo meccanismo costituisce in realtà per le imprese un disincentivo ad investire in innovazione e quindi in aumento della produttività.
Se alle imprese è data la possibilità di sopravvivere in un mercato competitivo (e particolarmente nel mercato unico europeo con valuta unica) fronteggiando attraverso una minor crescita salariale la concorrenza delle imprese a più alto tasso di crescita della produttività, le imprese più pigre coglieranno questa opportunità. E se avranno la possibilità permanente di compensare i crescenti gaps di produttività con crescenti inversi gaps salariali lo faranno. Ma poiché la compensazione della svalutazione salariale ha tuttavia un limite, l’esito di lungo periodo di un sistema produttivo avvitato su questa spirale (minor crescita della produttività →minor dinamica salariale → minor crescita della produttività → minor dinamica salariale…..) non può che essere un progressivo sgretolamento, fino all’estinzione, del sistema produttivo in una economia aperta fortemente concorrenziale. Al contrario, vincolando gli aumenti salariali a un tasso programmato di aumento della produttività, anche le imprese pigre sarebbero “costrette” ad adottare tutte le misure e ad effettuare tutti gli investimenti necessari per realizzarlo perché se non lo facessero pagherebbero in termini di riduzione dei profitti o di espulsione dal mercato ad opera della concorrenza delle imprese più efficienti. Le imprese potrebbero addirittura essere indotte a superare il tasso programmato per accrescere così la quota dei profitti in quanto tenute a concedere solo gli aumenti salariali legati al tasso programmato. I benefici per il miglioramento della struttura produttiva del paese sarebbero notevoli.
Naturalmente vi sono complessi dettagli tecnici da definire per garantire un buon funzionamento di tale meccanismo: chi debba stabilire il tasso programmato (deve trattarsi di un tasso concordato tra le parti sociali sulla base di indicazione di tecnici terzi e delle esperienze straniere); come tale tasso possa essere diversificato (e deve esserlo almeno con riferimento a tre parametri: settore, classe dimensionale, area territoriale), quale relazione di proporzionalità debba stabilirsi tra dinamica salariale e dinamica della produttività, come questo meccanismo possa essere incorporato nella struttura della contrattazione, e così via. Oltre al sottoscritto, diversi autorevoli studiosi hanno già affrontato in modi diversi questo genere di problemi (Ciccarone, Messori, Pini, Tronti): sorprende (anche se per certi versi ciò è comprensibile) il fatto che le parti sociali abbiano completamente ignorato questo aspetto della problematica del rapporto tra salari e produttività.
Eppure i fondamenti teorici dell’impatto negativo della bassa dinamica salariale sulla dinamica della produttività sono facilmente rintracciabili già nei principi elementari della “scelta delle tecniche” di stampo neoclassico oltre che nel ben noto modello di Sylos labini, passando per David Ricardo e Adam Smith. Ma a fianco della teoria c’è l’evidenza empirica. Brucia sulla nostra pelle la progressiva perdita di produttività e di competitività del sistema produttivo italiano accompagnata da un basso livello dei salari: si è tentato di guadagnare competitività attraverso l’abbassamento del costo del lavoro per unità di lavoro, ma ciò ha agito negativamente sulla domanda aggregata, sul tasso di crescita e sulla produttività, indebolendo ulteriormente il sistema produttivo italiano.
E’ sorprendente constatare come, vedendo che la macchina non è, come si usa dire oggi, “performante”, non ci si curi di vedere che cosa è che non va nei suoi ingranaggi. E’ auspicabile che impegno degli studiosi e impegno degli operatori si mobilitino per considerare approfonditamente entrambi gli aspetti del ruolo dei salari nel sistema economico, per giungere a disegnare, sperimentare e realizzare effettive e sostanziali modifiche del sistema di relazioni industriali sotto il profilo della struttura della contrattazione collettiva. “Menare il can per l’aia” e lasciare che i problemi marciscano danneggerebbe fortemente le capacità di ripresa dell’economia italiana.
Sebastiano Fadda