Giorgio Santini
Una incauta e maldestra dichiarazione di un ministro in pectore del nuovo Governo del Paese ha alimentato timori sulle compatibilità tra le politiche a favore del Sud e l’allargamento dell’Unione Europea, con l’ingresso nei prossimi anni di altri 12 Paesi.
Timori, peraltro, malriposti e a nostro avviso infondati.
La Cisl, infatti, non vede incompatibilità tra politiche regionali di sostegno alle aree in ritardo di sviluppo ed allargamento. Innanzitutto è convinta che l’allargamento della UE rappresenti un’occasione storica per l’Europa per ampliare una comunità di popoli diversi uniti dalla condivisione di valori di pace e di solidarietà e rivolti, attraverso la cooperazione, al progresso economico e sociale. Condivide, perciò, l’appoggio espresso dal Governo italiano nei giorni scorsi, in occasione del Forum Europeo sulla coesione economica e sociale, a questo processo di allargamento e ritiene che sarà positivo sia per gli attuali che per i nuovi membri dell’Unione.
Nell’ottica sindacale della politica economica e sociale vanno altresì approfondite tutte le questioni legate agli strumenti con i quali nell’Unione Europea si realizza la politica di coesione. Il II Rapporto di coesione e il confronto che si è aperto sul futuro ciclo dei Fondi comunitari dopo il 2006 hanno visto il sindacato e le parti sociali impegnarsi affinchè il Governo in sede UE si facesse portatore di una posizione nazionale per favorire una soluzione che non solo non penalizzi, ma valorizzi e qualifichi le politiche regionali di sostegno.
L’allarme lanciato sulla presunta penalizzazione del Sud si fonda sulla constatazione (peraltro ovvia) che il reddito medio dei Paesi che entreranno nella UE è consistentemente inferiore alla media degli attuali aderenti e che conseguentemente le politiche di sostegno della UE saranno maggiormente orientate verso questi Paesi a danno degli attuali. Le questioni in realtà sono altre.
Innanzitutto la politica d’allargamento non ha nessuna incidenza sui fondi comunitari 2000-2006 che sono già stati definiti e riguarderanno, nella ripartizione sui tre grandi obiettivi, i Paesi attualmente aderenti secondo i parametri conosciuti (per le politiche regionali per l’Obiettivo 1 la soglia per gli interventi riguarda il 75% della media del Pil pro capite).
Ne deriva che per le regioni Ob.1 (in sostanza il nostro Sud) ci sono cinque anni e oltre 100.000 Mld per determinare quelle azioni di sistema e di sostegno che permettano il raggiungimento degli obiettivi definiti: il raddoppio del Pil annuo rispetto alla crescita del Pil nazionale e la secca riduzione della disoccupazione. Semmai il problema per il Governo entrante (come per il precedente) e le Regioni sarà quello di garantire una programmazione per la gestione di queste risorse che risponda agli standard di qualità necessari e soprattutto di riuscire ad impegnare tutte le risorse stanziate (ricordando che da quest’anno è in funzione il disimpegno automatico delle risorse comunitarie non spese).
Una buona gestione dei Fondi 2000-2006 è un pre-requisito fondamentale per avere credibilità e poter proporre innovazioni nel negoziato per il prossimo ciclo dei fondi comunitari.
Chiarendo poi che non è affatto detto che le future politiche regionali ‘taglino fuori’ il nostro Paese e il Sud in particolare.
Saranno decisivi per questo i parametri che saranno adottati per il nuovo ciclo: ma su questo il negoziato è completamente aperto, siamo solo agli inizi e il nostro Paese può svolgere un ruolo attivo soprattutto se riuscirà a farsi portatore di una proposta qualificata, misurata sull’insieme delle politiche di coesione della UE, attuale ed allargata, e non solo sui propri specifici ancorchè indiscutibili interessi nazionali. Si tratta di un negoziato complesso, come dimostra su un altro versante la richiesta di alcuni Paesi di rinviare per alcuni anni il libero accesso dei lavoratori dei Paesi dell’Est.
A nostro avviso le nuove problematiche derivanti dall’allargamento dovranno portare ad un ripensamento delle politiche di coesione sia in relazione alla quantità di risorse impiegate sia ai parametri di accesso. Va evitata la tendenza a rinazionalizzare le risorse e, in conseguenza, ad alimentare conflitti tra Paesi forti e Paesi deboli. Va, invece, definito un ruolo ‘forte’ delle politiche regionali come elemento fondamentale di riduzione delle attuali differenze tra aree nella UE, privilegiando quelle azioni (come la cooperazione trasnazionale) con un forte valore aggiunto comunitario e soprattutto considerando la redistribuzione di risorse comunitarie nelle aree più deboli come stimolo per politiche di contesto che favoriscano la crescita dell’economia.
Si tratterà, in sostanza, non solo di favorire lo spostamento di investimenti, tramite gli aiuti, quanto di creare nelle aree arretrate occasioni diffuse di investimento aggiuntive nel quadro di un obiettivo generale di crescita del Pil e della produttività dell’intera Europa oggi a 15 domani a 27 Paesi. Ciò significa anche riconsiderare la struttura degli obiettivi su cui sono articolate le politiche di coesione e in particolare riesaminare la frammentazione degli interventi: infatti, risulta che proprio per questo motivo, ad esempio nel caso dell’Ob. 2, essi hanno avuto in diversi casi, una scarsa incidenza concreta per ridurre le differenze. Infine, sarà necessaria, una maggiore coerenza tra le risorse per le politiche strutturali e le risorse per le altre politiche della UE, in particolare le politiche agricole, che pur assorbendo più di metà del bilancio comunitario (300 Mld di euro in 7 anni) favoriscono generalmente le aree più prospere svolgendo, quindi, nei fatti un ruolo anti-coesione.
L’obiettivo quindi è quello di impostare con più coerenza e in funzione più esplicitamente rivolta alla coesione e allo sviluppo le politiche strutturali della UE, riaffermando in tutto il percorso che porterà all’adozione del Rapporto il ruolo del partenariato socio-economico e della politica di concertazione.
In questo ambito le soluzioni (anche relativamente al nostro Paese) possono essere effettivamente diverse ed articolate ma in ogni caso la posizione italiana nel negoziato non sarà penalizzante per le regioni meridionali bensì impostata sulla riforma della politica regionale europea secondo criteri di efficacia e sussidiarietà, semplificazione e qualità, sulla costruzione di un consenso tra tutti i Paesi dell’Unione per modificare i parametri di accesso e/o per concentrare le risorse impiegate nelle regioni che risultano ammissibili secondo gli attuali criteri anche nell’Europa allargata, prevedendo comunque una adeguata fase di transizione prima dell’uscita definitiva per quelle regioni che dovessero superare la soglia prevista.