Elisabetta Bettini
Il recente congresso nazionale dell’Associazione italiana per la direzione del personale (Aidp) ha affrontato il tema, sempre più fondamentale ed urgente in rapporto agli sviluppi in atto nel mondo dell’economia e del lavoro, di quanto pesi – o debba pesare – il valere professioanle di chi lavora in termini di competitività dell’impresa; di quale sia, sotto questo profilo, il compito e il ruolo del direttore del personale; di come si pone in tale quadro la realtà del lavoro flessibile e della sua gestione. SOno problemi che si inseriscono nella grande questione generale della flessibilità del lavoro, di cui in queste settimane, grazie all’assemblea della Confindustria prima e a quella della Banca d’Italia poi, si è ricominciato a parlare con insistenza e he è, peraltro, uno degli obiettivi della nuova maggioranza e presumibilmente del Governo che ha appena ricevuto la fiducia delle Camere.
Questa opzione viene sostenuta in ragione del ritenuto collegamento, in termini di causa-effetto, tra le iniziative di flessibilizzazione realizzate in questi ultimi anni e l’incremento di oltre un milione di posti di lavoro avvenuto nel biennio 1999-2000 e incremento principalmente dovuto all’occupazione flessibile, che nel corso del solo 1999 è aumentata dell’11,1% a fronte di un incremento dell’1.3% del numero complessivo dei lavoratori. Il dato potrebbe far presumere che, spingendo ancora sul pedale della flessibilità, si otterrebbero nuovi e migliori risultati. Non viene però adeguatamente considerato che il 90% di quanti avevano nel 1997 un contratto atipico, dopo tre anni, nel 2000, si trovava ancora nella medesima condizione professionale.
Questa circostanza lascia intendere – come è acutamente osservato dal Censis nel suo 34° Rapporto – che ‘il lavoro flessibile si configura già oggi come un modello del tutto alternativo a quello standard, presentando peraltro preoccupanti elementi di coincidenza con il lavoro irregolare e, soprattutto per le donne, che rappresentano i tre quarti dei lavoratori atipici nel 1999, rasenta i limiti della sottoccupazione con un reddito medio netto [mensile] al di sotto del milione di lire’.
Certamente, secondo la vecchia storia se sia nato prima l’uovo o la gallina, non mancano quelli che, ribaltando i termini della questione, sostengono che ‘il soffocamento degli spazi di flessibilità diventa una delle cause della permanenza…di una rilevante quota di lavoro sommerso…’ (Confindustria in ‘Azioni per la competitività’, maggio 2001) ed è probabile che, proseguendo su questa linea, sia difficile arrivare alla quadratura del cerchio; anche i dati statistici, infatti, vengono interpretati alla luce dei paradigmi di partenza, alle convinzioni radicate, ai risultati che si vogliono ottenere.
D’altra parte, molti sono i cambiamenti verificatisi nel sistema produttivo nazionale nell’era della globalizzazione, del business e della new economy, basti pensare che ormai il 30% delle grandi aziende operanti in Italia è acquisito da società multinazionali, che oltre il 60% delle aziende di dimensioni medio-grandi è coinvolto da processi di internazionalizzazione e che processi analoghi e altrettanto sconvolgenti interessano i vecchi assetti del sistema bancario. Anche la pubblica amministrazione, dal canto suo, si è trasformata o, sarebbe più esatto dire, si sta trasformando in modo quasi altrettanto rapido, attraverso la privatizzazione di interi settori e interventi di semplificazione e di riordino che, tuttavia, non sempre appaiono pienamente convincenti. Ma su questo punto il discorso si farebbe assai lungo e meriterebbe una trattazione a parte. Qui basterà dire che anche la pubblica amministrazione, tradizionale serbatoio della (dis)occupazione intellettuale, e non solo, sta anch’essa utilizzando, in modo surrettizio, forme di impiego flessibile.
I cambiamenti appena citati, assommati alla diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, hanno già avuto importanti effetti quantitativi e qualitativi sull’occupazione – e altri, forse anche più imponenti, ne avranno -, ma non hanno scalfito la segmentazione del mercato del lavoro, sicché la sua ‘rigidità’ è rimasta sostanzialmente inalterata. Il che non può essere superato ricorrendo a misure di flessibilizzazione pura e semplice, quanto piuttosto con l’abbattimento delle barriere interne, mantenendo la tutela dei diritti e il rispetto del lavoratore.
In particolare, nel rapporto pubblico-privato, nonostante che il mutamento in atto abbia fatto sentire i propri effetti in entrambi i segmenti del mercato del lavoro, questi restano privi di concreti punti di contatto, allo stesso modo in cui non esistono canali di comunicazione tra il lavoro standard e il lavoro flessibile, che continua a rappresentare non un’opportunità ricercata e voluta, ma una necessità obbligata dalla mancanza di scelte alternative.
Il Censis, nel suo 34° Rapporto, definisce questo fenomeno ‘l’effetto bolla della mobilità mancata’ e ne sottolinea gli effetti negativi sulla possibile e auspicabile fluidità del mercato del lavoro, in quanto all’estrema divaricazione di strumenti di accesso si aggiunge la quasi totale assenza di momenti di integrazione fra i due mercati.
Un tentativo di cominciare a superare questo impasse può venire dalla riflessione recentemente condotta dell’Aidp associazione che riunisce quanti operano nell’area delle risorse umane in posizione direttiva in aziende di ogni dimensione e settore, sia private che pubbliche.
Al centro del discorso, che si è sviluppato nel congresso nazionale dell’associazione, è stato il valore delle persone che lavorano nell’impresa e, per converso, l’adeguata capacità della direzione del personale a fungere da partnership con la linea e a concorrere a creare condizioni di maggiore competitività dell’impresa attraverso lo sviluppo e l’adeguamento della professionalità dei lavoratori.
Questo approccio, che in qualche modo si può ricollegare alle teorie della ‘qualità totale’, nel porre al centro del sistema le risorse umane disponibili e le opportunità positive offerte dalla globalizzazione del business e dalla rivoluzione in corso grazie alla diffusione delle nuove tecnologie informatiche e di telecomunicazione, consente una diversa linea di ragionamento e, almeno in linea teorica, pone le premesse per avviare un’azione di superamento delle segmentazioni e delle barriere tra le diverse tipologie di lavoro.
Le funzioni dei direttori del personale si pongono, infatti, come trait d’union tra le esigenze dell’impresa e quelle del lavoratore, allo stesso modo nel settore privato e nel settore pubblico, e questo tanto più oggi in Italia dove, dopo aver privatizzato numerosissime imprese pubbliche, contrattualizzato il rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione e introdotto, in quest’ultima, sistemi di controllo strategico e di gestione e di misurazione analitica dei costi, viene fortemente sostenuta l’ipotesi di porre in concorrenza il pubblico e il privato per promuovere una più efficiente ed economica gestione dei servizi, in attuazione del principio di sussidiarietà.