Lisa Bartoli
(In Documentazione)
Aumenta la spesa per l’assistenza, ma permangono forti squilibri territoriali. E’ questo in estrema sintesi il risultato contenuto nel secondo rapporto dell’osservatorio dello Spi Cgil, sulle politiche sociali. Dal ’96 al 2000, infatti, le risorse complessive programmate sono passate da 3.603 miliardi di lire a 4.543, con un incremento pari al 26 per cento. Ma l’incidenza della spesa per assistenza su quella totale è aumentata soltanto dello 0,1 per cento, passando dall’1,9 del ’96 al 2 per cento del 2000.
Entrando nel dettaglio, la ricerca sviluppa un fotografia a tinte sostanzialmente diverse da regione a regione. Stavolta non c’è il solito spartiacque tra Centro-Nord e Sud, quanto piuttosto le enormi differenze tra regioni a statuto ordinario e quelle a statuto speciale. A guidare la classifica delle Regioni che spendono di più per l’assistenza sociale è, infatti, la Valle d’Aosta, che dal ’96 al 2000 ha innalzato il tetto di spesa (corrente e per investimenti) fino a portarla a 977 mila lire pro capite: un valore 40 volte più elevato di quello registrato in Puglia, fanalino di coda con 18 mila lire. A seguire le Province di Trento (910 mila lire) e Bolzano (690 mila lire), Friuli Venezia Giulia (222 mila lire) e Sardegna (212 mila lire). Il Veneto, infine, è la Regione ordinaria che spende di più per il sociale, con 127 mila lire pro capite.
Tra le regioni ordinarie, a segnare il passo con i livelli di spesa, sono anche le Marche (25 mila lire pro capite), l’Umbria (27 mila lire) e Abruzzo (31 mila lire). Lazio e Lombardia hanno elevato – e di molto – i propri tetti di spesa soltanto nel 2000. ‘Oggi ci troviamo di fronte – spiega Raffaele Minelli, segretario generale dello Spi Cgil – venti Stati sociali regionali che minano i diritti costituzionali come quelli alla assistenza, alla salute e all’eguaglianza. Sono quattro le questioni sul tappeto: verificare cosa succede nella sanità e per questo serve monitorare il federalismo al fine di evitare l’allargamento delle differenze di trattamento a livello territoriale; capire quanto sia applicata la legge quadro sull’assistenza; analizzare i Progetti operativi regionali (Por) in merito all’utilizzo dei fondi sociali europei 2001-2006; verificare la definizione e realizzazione di livelli assistenziali e sanitari universali alti e non minimi, validi in tutto il territorio nazionale’.
Sull’argomento è intervenuto Guglielmo Epifani, vice segretario generale della Cgil. ‘L’indagine dimostra ancora una volta – ha detto – che siamo in presenza di una situazione di disordine crescente e di dispersione delle risorse. Proviamo ad indicare qualche elemento di qualità. In un paese dove si consumano troppi farmaci c’è qualcosa che non va. L’obiettivo deve essere quello di ridurne il consumo qualificando le misure riguardanti la salute. Bisogna fissare un nuovo profilo qualitativo sanitario. E per questa strada occorre chiedersi cosa debba essere la competitività territoriale. Certamente non quella attuale che è chiusa e di confine. Dobbiamo immaginare una competitività che tende a far crescere la qualità degli standard’.
Per Giovanni Bissone, assessore alla sanità della regione Emilia Romagna è necessario definire i livelli essenziali di assistenza che ‘costituiscono il diritto di cittadinanza dalla Sicilia al Friuli Venezia Giulia, quelli che nel piano sanitario sono definiti necessari e appropriati’. ‘Ciò deve essere garantito a tutte le Regioni indipendentemente dalla ricchezza prodotta da ciascuna realtà. E’ in questo contesto che nasce il problema del finanziamento. ‘Non drammatizzerei i dati diffusi sulla sanità, ha precisato. ‘Pensare di poter destinare alla sanità meno del 6 per cento del Pil è improponibile. Negli Stati Uniti, spesso evocati, la spesa pubblica per anziani e poveri si attesta al 6,5 per cento.’