Giorgio Caprioli
Sappiamo ormai tutto sul contratto dei metalmeccanici delle aziende di Federmeccanica, firmato solo da Fim e Uilm e contrastato dalla Fiom, e sul conflitto tra le organizzazioni che ne è seguito. Di concreto resta l’intesa, che porta un sicuro vantaggio economico ai lavoratori metalmeccanici. Qui voglio solo soffermarmi su alcune considerazioni di prospettiva. Il modo migliore di difendere l’importante ruolo di solidarietà del contratto nazionale è farlo, ottenendo dei risultati vicini alle richieste della piattaforma e non chiedendo ai lavoratori un impegno di tempo e di ore di sciopero sproporzionato rispetto ai risultati. I metalmeccanici italiani riconoscono l’importanza del contratto nazionale, ma sanno saggiamente valutare che la questione salariale e quella occupazionale nel nostro paese, diviso da profondi dualismi, possono essere meglio affrontate se si potenzia il secondo livello di contrattazione (aziendale e/o territoriale). In estrema sintesi, sono questi i due principali motivi per i quali la Fim si è assunta la responsabilità di firmare un contratto separato.
Infatti, da un lato è fin troppo evidente che chiedere che un contratto nazionale redistribuisca produttività comporterebbe un grandissimo dispendio di tempo ed energie a fronte di risultati comunque modesti. La tensione salariale derivante dal pieno impiego nel Centro-Nord può trovare risposte più adeguate nella contrattazione di secondo livello, generalizzabili a tutti i lavoratori di quelle regioni soltanto attraverso la contrattazione territoriale.
Dall’altro lato, nel Mezzogiorno la vera priorità è il problema dell’occupazione, al quale rischiamo di dedicare molte parole ma pochissime azioni contrattuali concrete.
Alla radice della divisione sul rinnovo contrattuale c’è una diversità di opinioni tra Cgil e Cisl su come riformare l’accordo del luglio 1993. Dal canto suo la Cisl ha detto chiaramente qual è la sua ipotesi. La Cgil, invece, oscilla tra una difesa dell’esistente e l’ipotesi di rafforzare la centralizzazione contrattuale, assegnando al contratto nazionale compiti di redistribuzione della produttività media. Questa ipotesi è caldeggiata in particolare dalla minoranza interna della Cgil, che rifiuta di prendere atto delle profonde diversità di condizione oggettiva dei lavoratori che caratterizzano il nostro paese. La richiesta della Fiom di distribuire 16.000 lire per l’andamento di settore rivela un maldestro tentativo di mediare tra le due posizioni presenti nella Cgil, in funzione di un congresso di ricomposizione tra maggioranza e minoranza. Il tentativo è quello di ridare smalto al mito della Cgil come ultima ‘casa comune’ della sinistra. In nome di equilibri interni alla propria confederazione la Fiom voleva imporre a Fim e Uilm una gestione radicale e avventurista della vertenza contrattuale, che nulla ha a che vedere con i reali interessi dei metalmeccanici. La Fim e la Uilm non hanno accettato di recitare il ruolo di ancelle passive in giochi congressuali che non le riguardano e hanno puntato invece a una buona chiusura, coerente peraltro con l’idea di riforma degli assetti contrattuali che abbiamo discusso e approvato nel nostro congresso.
Con questo esito drammatico finisce la vecchia unità di azione, che si basava su tre presupposti non più accettabili. Il primo era una sorta di divisione dei compiti tra Fim e Fiom: alla prima il compito di proporre nuove idee, di stimolare l’innovazione, di prendersi la responsabilità di trovare le mediazioni per concludere i negoziati; alla seconda quello del ‘rapporto di massa’, della capacità organizzativa, della ‘fedeltà’ assoluta alle piattaforme: Il secondo era la centralità della questione della redistribuzione del reddito a favore del lavoro, ritenuta capace di riassumere simbolicamente il conflitto tra capitale e lavoro, che invece negli ultimi quindici anni si è arricchito di questioni relative ai bisogni di libertà, di sapere, di autorealizzazione, non riconducibili alla dimensione salariale.
Il terzo presupposto stava nel rapporto con la politica: i collateralismi e le cinghie di trasmissione tipici del rapporto sindacato-partiti nella Prima Repubblica sono definitivamente saltati a causa della crisi dei partiti di massa di allora (Pci, Psi, Dc), della maggiora autonomia di Cgil Cisl e Uil, del progressivo affermarsi del bipolarismo nel sistema politico italiano.
Di fronte a ciò la Cgil ha chiaramente scelto un modello tradeunionista, in base la quale tenta di giocare in proprio un ruolo nel dibattito e negli equilibri di potere dei partiti della sinistra. La Cisl ha superato non senza difficoltà, e anche grazie alla determinazione della Fim, la tentazione di fare altrettanto nei confronti di un’area centrista. Essa oggi ripropone una concezione rinnovata dell’autonomia, che assegna al sindacato un ruolo di attore politico diretto in quanto rappresentante di una parte della società civile (il mondo del lavoro), senza rinunciare alla ricerca di dialogo e di convergenza con i partiti, basata su una scelta di interlocuzione pluralista.
Un’ultima questione da non dimenticare è la concezione della democrazia nel rapporto tra sindacato, iscritti e lavoratori. La vecchia concezione di ‘sindacato dei lavoratori’, cara alla Cgil, l’ha sempre portata a teorizzare il ricorso al voto di tutti i lavoratori come ultima istanza per assumere decisioni negoziali. Questa idea non è in grado di dare risposte convincenti a due questioni ripetutamente proposte dalla Cisl. La prima è la necessità di riconoscere maggior ruolo e potere a chi, attraverso l’iscrizione, consente al sindacato di essere rappresentativo, di mantenere una robusta struttura operativa e di pagarne i costi di funzionamento. La seconda è il fatto che l’organizzazione di eventi elettorali, che il sindacato può mettere in campo, non è in grado in ogni caso di coinvolgere una parte significativa dei lavoratori cui si rivolge. Sarebbe come se, in occasione di elezioni politiche, il certificato elettorale potesse essere consegnato a poco più della metà degli elettori. Le nostre consultazioni hanno certamente un grande valore politico, ma sono ben lungi dall’avere le caratteristiche necessarie per essere giuridicamente credibili.
Negli ultimi tempi, poi, questa forma, già di per sé imperfetta, di democrazia plebiscitaria è resa ancor meno credibile sul piano democratico dal ruolo di primo piano che nelle decisioni assumono i leader, la cui funzione viene amplificata a dismisura da stampa e televisione. Il segretario generale di turno, che si appella a un voto del popolo (peraltro, come abbiamo visto, non di tutto il popolo) appare più come un piccolo Peron che come un grande democratico.
D’altro canto la sola democrazia degli iscritti sostenuta dalla Cisl affida nei fatti la validità erga omnes dei contratti (soprattutto di quelli nazionali) alla volontà delle controparti. La questione è seria, ma non può essere affrontata a colpi di clamori propagandistici e nemmeno risolvendo per via legislativa un problema fortemente legato a quello della libertà di associazione sindacale, garantita dalla Costituzione. Una legge non farebbe che aggirare l’una o l’altra opinione in campo: la soluzione va ricercata attraverso la via negoziale, la sola in grado di comporre con equilibrio le diverse opinioni. La nuova unità di azione è un compito a cui dedicarsi al più presto. Essa deve basarsi sulla pari dignità tra le tre confederazioni, su un’idea comune circa l’assetto delle relazioni contrattuali e le regole della democrazia, sulla modifica dei tre presupposti, prima descritti, su cui la vecchia si fondava e che ora non reggono più.