Pier Paolo Baretta
Quanto è successo a Genova rappresenta una sconfitta, tragica e drammatica, per tutti. La morte di Carlo Giuliani non riceverà, purtroppo, alcuna risposta proporzionata all’avvenimento né dai documenti ufficiali del G8, né dalle responsabilità chiare di chi ha sparato e di chi ha provocato, né dalle polemiche, di parte, che già si sono accese. Il morto ed il carabiniere che gli ha sparato c’entrano poco. Il secondo pagherà col carcere e col rimorso perenne ed il primo ha già pagato con la vita le colpe dei loro capi. Come non c’entrano ‘le forze dell’ordine’ ed i molti giovani sinceramente non violenti.
Le difficoltà emerse non sono logistiche. La decisione dei ‘grandi’ di rinchiudersi, il prossimo anno in Canada, in montagna, non fermerà né la globalizzazione, né la contestazione e la violenza troverà altre strade. Sono la morale, la cultura e la politica ad essere interrogate, senza pietà, dagli avvenimenti di questi giorni.
Prima di Genova c’erano state, non tanto Seattle (utilizzata impropriamente, anche dai media, come simbolo di un percorso che è ormai completamente diverso, sia nei contenuti politici dei vertici, sia nelle finalità e nelle logiche dei movimenti antiglobalizzazione) o Porto Alegre; ma Davos, Nizza, Goteborg ed il loro misurabile crescendo di violenze ed ingovernabilità. Si sapeva tutto e tutto era prevedibile. Eppure, in una città spettralmente svuotata di vita, in un’area gialla poco difesa rispetto a quella rossa, le pattuglie dei blocchi neri hanno potuto sferrare il loro agguato freddo e premeditato nei confronti delle forze dell’ordine e dei non violenti. Tutt’altro che dilettanti, i blocchi neri hanno scelto loro il terreno più favorevole alla battaglia, gestendo la guerriglia esattamente come si deve fare: mordi e fuggi, dove il nervo della difesa è più scoperto, innestando, tra incertezze e connivenze, la tragica spirale.
Forse, come appare dalla dinamica delle giornate preparatorie (i colloqui al vertice delle istituzioni, in particolare del capo della polizia, con Agnoletto, le ‘aperture’ indistinte del Governo all’intero Gsf, accreditando, anche istituzionalmente e televisivamente personaggi ben noti, come Casarini), si è pensato che una fasulla realpolitik fosse sufficiente. Così facendo si è finito, inevitabilmente, per favorire la progressiva confusione e, di trappola in trappola, per dare corpo – in buona o in cattiva fede poco importa per Carlo Giuliani – alla tragedia singola ed all’intero dramma.
Sbagliano, allora, le autorità a dire: ‘Tutto ciò che si poteva fare è stato fatto’. Ed una commissione di inchiesta si impone. I vertici delle istituzioni (non le istituzioni!) devono rispondere delle loro responsabilità. Ma anche i capi del movimento (non il movimento!) debbono rispondere delle loro. E’ gravissimo aver sentito cinici portavoce di migliaia di giovani, portati lucidamente allo sbando, gridare al vittimismo e alla persecuzione, dopo aver incitato alla lotta contro& l’Impero! Il garantismo è un diritto e va rispettato anche nei week-end, ma non può servire da alibi. Se si usano linguaggi che incitano alla violenza, si consentono ambiguità organizzative, si accettano nelle proprie file contestatori organizzati con spranghe ed affini, si manifesta senza servizi d’ordine (e chi se ne intende sa cosa vuol dire, se davvero si vogliono evitare infiltrazioni e provocazioni), il dichiararsi, dopo, estranei alle responsabilità, scaricandole tutte e soltanto dall’altra parte, è non solo ipocrita, ma moralmente e politicamente colpevole.
Farebbero bene, i vari Agnoletto, Casarini, ad abbandonare il campo, rinunciando (anche Bertinotti!), a rappresentare un movimento che, come dice Ilvo Diamanti (Il sole 24 Ore di domenica), non è un movimento: ‘perché nel fronte degli oppositori alla globalizzazione, accanto alle istanze del solidarismo e dell’ambientalismo, è consistente il peso delle rivendicazioni fondamentaliste, dei patriottismi locali, delle difese etnoterritoriali, delle nostalgie dell’ordine antico’. Si ritirino e lascino liberi quelle migliaia di onesti, tratti in inganno, di riprendere un cammino positivo e democratico di protesta e di proposta, senza ‘fingersi figli della stessa cultura’ e senza che war games di massa prendano il sopravvento.
Ma anche per il sindacato si impone una riflessione. Sappiamo bene che il metodo, ovvero la violenza o meno, non è uno spartiacque solido se l’analisi è la stessa. Lo spartiacque principale è la concezione della globalizzazione e dei suoi sviluppi. Una analisi seria sulla globalizzazione non nasconde le gravità di una sua gestione affidata alla prepotente libertà di un mercato senza valori e regole. Contro questa globalizzazione anche noi lottiamo. Ma non ci rassegnamo ad una visione negativa. Vogliamo che la globalizzazione diventi una opportunità e come tale faccia crescere la vita dei popoli. Molte persone, giovani e non, la pensano proprio così. Ma a loro giunge più forte (anche attraverso i nostri microfoni, come è accaduto all’interno di un teatro a Genova), la voce di Agnoletto.
Dopo Genova quanto abbiamo fatto finora come sindacato, ed è molto, non basta più. La scelta stessa del G8 di aprirsi ai rappresentanti dei Paesi poveri e alle parti sociali apre una fase ancora diversa e nuova che dobbiamo interpretare. Dobbiamo chiedere ed offrire di più al sindacato mondiale, che con i suoi 160 milioni di iscritti, sparsi nel mondo, rappresenta istanze che provengono, davvero, dalle aree più povere del mondo. Il sindacato, dunque, nell’era globale, ha una responsabilità ancora maggiore del passato. Ha un compito di rappresentanza più ampio del proprio ambito organizzativo. Assieme ad altri che condividono, con noi, valori, analisi e prospettive, può, e deve, svolgere un ruolo educatore importante. Assieme a costoro (associazioni, società civile, comunità, istituzioni…) dobbiamo tessere una rete sociale che aggreghi e non disgreghi, che infonda fiducia e non confonda. Senza ridicole tentazioni egemoniche, senza alcuna ambiguità, ma anche senza puzza sotto il naso. E’ stato detto, giustamente, che noi abbiamo cento anni di storia. E’ un patrimonio grandioso, ma, se non reinvestito, potrebbe non bastare, di fronte ad un presente che, in misura molto più prepotente del passato, è già proiettato nel futuro. Dobbiamo parlare direttamente ai lavoratori, ai loro e ai nostri figli, ai loro compagni di lavoro, di scuola, ai loro insegnanti.
Un giovane del blocco nero alla domanda ‘che cosa vuoi?’ ha risposto ‘niente’. Nel suo fondo su La Stampa di domenica, Barbara Spinelli, ricorda, a questo proposito. I Demoni di Dostoevskij e quell’intreccio nichilista tra nulla e violenza, miscela la più esplosiva per .. ‘(far) scoraggiare tutti e fare una sola minestra di tutto e di tutti: e la società, così scossa, malata, inacidita, cinica e miscredente, ma con una infinita sete di qualche idea conduttrice e di autoconservazione, prenderla poi ad un tratto nelle proprie mani, alzando il vessillo della rivolta’ (I Demoni).
Ma, intervistato dal telegiornale del mattino di venerdì, prima della rivolta, un altro giovane, di colore, ha motivato la sua protesta contro la globalizzazione così: ‘Sono venuto a Genova a manifestare e contestare perché voglio che siamo uniti; che si possa viaggiare e lavorare ovunque, senza permesso di soggiorno’. Non possiamo aspettare la prossima occasione per sapere come risponderanno i nostri figli. E’ a questo giovane, disorientato e solo, che dobbiamo dare, adesso, nuove speranze.