Valerio Speziale – Professore straordinario di diritto del lavoro alla Facoltà di Economia dell’Università di Chieti
1. La nuova legge e la flessibilità del lavoro – Il decreto legislativo n. 368 del 2001 ha introdotto la nuova disciplina del lavoro a termine ed ha recepito la Direttiva europea 1999/70/Ce del 28 giugno 1999. A seguito dell’emanazione della fonte comunitaria, le parti sociali hanno aperto una trattativa finalizzata a definire un accordo che avrebbe dovuto successivamente essere tradotto in legge. Come è noto, dopo una lunga vicenda negoziale, l’esito del processo è stato quello della stipula di un contratto separato, sottoscritto dalla Confindustria (e da altre organizzazioni imprenditoriali) da un lato e da Cisl e Uil dall’altro, senza il consenso della Cgil (che si è opposta principalmente perché l’accordo escludeva la competenza della contrattazione collettiva nella determinazione delle causali nelle quali era possibile stipulare contratti a termine).
Il Governo italiano ha riprodotto integralmente nel decreto delegato il contenuto del contratto separato (con alcune modeste variazioni di non particolare rilievo). La nuova legge è stata accolta con commenti positivi dall’Esecutivo e da alcuni importanti attori del sistema di relazioni industriali, che hanno sottolineato come essa sia in grado di creare nuova occupazione (anche per i giovani) e di innalzare il tasso di attività, che è attualmente tra i più bassi dell’Unione Europea. La stessa Direttiva, d’altra parte, pone tra le sue finalità quella di introdurre forme flessibili di lavoro che incrementino la competitività delle imprese ed i livelli occupazionali (anche se la fonte europea si pone soprattutto l’obiettivo di tutelare i lavoratori contro “gli abusi” che nascono dalla successione di rapporti a scadenza fissa e di garantire il principio di non discriminazione tra contratti a tempo determinato ed indeterminato).
Non è questa la sede, ovviamente, per analizzare il problema del rapporto tra lavori flessibili ed incremento dei livelli occupazionali. Va detto che, dal punto di vista economico, non sono state rinvenute prove certe di un rapporto causa – effetto tra politiche di deregolazione del mercato del lavoro ed incremento delle opportunità occupazionali. La flessibilità può incidere sull’elasticità dell’occupazione rispetto alle variazioni del Pil (sulla capacità, cioè, di una più veloce crescita o diminuzione dei livelli quantitativi di lavoro in relazione all’aumento o alla riduzione del prodotto interno lordo) e può agevolare l’incontro tra domanda ed offerta per alcune categorie particolari di lavoratori (donne, giovani al primo impiego disoccupati di lunga durata) Essa, tuttavia, se non accompagnata dallo sviluppo economico (inteso come allargamento della base produttiva con l’ampliamento o la creazione di nuove imprese) non è di per sé in grado di aumentare l’occupazione (ed il tasso di attività secondo gli auspici del Governo). Da questo punto di vista, il ruolo secondario della flessibilità a fini occupazionali trova un riscontro significativo proprio nella situazione italiana. In base agli ultimi dati disponibili (luglio 2001), il tasso di disoccupazione nazionale si è attestato al 9,2%, con il 3,6% al Nord, il 7, 1% al Centro ed il 19% al Sud. In attesa di una eventuale regionalizzazione del diritto del lavoro (quale effetto della riforma dell’art. 117 della Costituzione), attualmente l’uniformità a livello nazionale nella disciplina legale dei rapporti di lavoro non potrebbe mai giustificare differenze così significative e diventa difficile poter affermare che le stesse norme non ostacolano la (quasi) piena occupazione al Nord mentre ne costituiscono la causa principale al Sud.
Il diritto del lavoro, inoltre, se non può trascurare le ragioni dell’economia, ha la finalità principale di tutelare valori non economici (l’equità, l’uguaglianza, la solidarietà, la salute, la dignità) che devono limitare le esigenze di efficienza e produttività delle imprese. Il che non vuol dire indifferenza del diritto del lavoro all’economia, ma soltanto necessità di trovare un punto di equilibrio tra protezione del lavoratore come persona (e non come mero fattore della produzione) e le necessità che scaturiscono dal processo produttivo.
Il lavoro a termine può costituire un utile esempio. La scienza economica non ha dimostrato che la generalizzazione del contratto a tempo determinato realizza una crescita dell’occupazione superiore a quella attuale (dove la regola è il rapporto di lavoro stabile ed il termine e l’eccezione). Tuttavia, anche se fosse possibile arrivare ad una simile conclusione, non necessariamente il giurista dovrebbe sostenere una riforma del sistema a favore del contratto a tempo determinato come forma normale dei rapporti di lavoro. Il contratto a termine (specie se di breve durata) sottopone il dipendente ad una condizione di continua precarietà, lo espone all’ansia di dover essere costantemente in attesa della proroga o del rinnovo del contratto, gli impedisce di programmare la propria vita dal punto di vista economico (per avere, ad es. un finanziamento) o personale (in relazione alla costituzione di un nucleo familiare) e condiziona anche suoi diritti fondamentali (ad es. quelli sindacali), quando il loro esercizio potrebbe esporlo a ritorsioni (come il mancato rinnovo del contratto). La scelta per la stabilità, dunque, risponde ad una logica non economica che il giurista deve considerare se non vuole rinunciare alla tutela di valori fondamentali (alcuni di natura costituzionale) che sono nel “codice genetico” del diritto del lavoro.
Tuttavia la protezione del lavoro non può operare contro l’economia. E, per tornare all’esempio dei contratti a termine, non vi è dubbio che la legge (o altre fonti) debbono consentire che il contratto a tempo determinato venga utilizzato quando vi siano esigenze temporanee delle imprese (e dei lavoratori), perché se ciò non fosse possibile gli effetti depressivi sull’occupazione di una normativa che non asseconda esigenze oggettive delle aziende sarebbero inevitabili (ed il diritto del lavoro finirebbe per perdere quella funzione promozionale dell’occupazione che è tra i suoi obiettivi fondamentali).