Vincenzo Bavaro – Dottore di Ricerca in Diritto del Lavoro, Università di Bari
1. Premessa. Confesso di avere difficoltà ad esprimere una valutazione sulla legge-delega al Governo in materia di mercato del lavoro per almeno tre ragioni. In primo luogo, la complessità della proposta legislativa è tale da esigere un lavoro di ricognizione su quasi tutto il sistema giuridico del lavoro (dall’avviamento alle misure di assistenza, alla gestione del rapporto) che non è proponibile nell’angusto limite di queste pagine. In secondo luogo, come tutte le deleghe, essa traccia le linee direttrici della futura azione legislativa del Governo con caratteri talmente sfumati da lasciare spazio ad ogni genere di approccio critico (in senso kantiano) e che, pertanto, ma induce alla prudenza nel giudizio tecnico, o meglio alla riserva di giudizio. Ma la difficoltà maggiore in cui sono costretto ad imbattermi è derivante dall’anima politica del disegno di legge. Mi riferisco alla connotazione ideologica che ispira questo disegno di legge che, com’ è ormai noto, rappresenta la preliminare propaggine normativa del Libro bianco predisposto dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali. Da questo punto di vista, è bene dire che la già numerosa letteratura prodottasi in proposito appare quanto mai appropriata anche per i caratteri della delega, e sarà anche a questa che intendo riferirmi nel corso di questi appunti.
Orbene, avventurarsi in una valutazione esclusivamente tecnico-giuridica degli effetti che la delega produrrebbe sull’assetto attuale del diritto del lavoro sarebbe un esercizio sconveniente perché le 13 norme che la compongono dicono, ad un tempo, troppo e troppo poco. Troppo è il mutamento che esse produrrebbero nel sistema giuridico del lavoro; troppo poco è la definizione dei lineamenti tecnici che – probabilmente – saranno precisati in sede di attuazione della delega. Per queste ragioni, alla analisi, per quanto superficiale, di un istituto fra tanti, preferisco un volo d’uccello sulla delega che possa farmi intravedere il suo senso socio-giuridico. A tal fine vorrei partire da una considerazione generale: commentando il Libro bianco, un autore ha recentemente scritto che la riconduzione del diritto del lavoro al diritto dell’economia, secondo la concezione ivi accolta, «implica necessariamente l’individuazione della funzione normativa del diritto del lavoro nella mera regolazione del mercato o, se si preferisce, presuppone logicamente la riduzione del lavoro a merce» (Pinto, Mercato del lavoro e riforme: il libro bianco, UP, Nov-Dic. 2001).
Gli appunti seguenti non sono altro che notazioni generali finalizzate a confermare questa semplice, e sovente soffocata, affermazione,- tanto da poter dire che la politica del lavoro del Governo si esprime attraverso una fenomenologia giuridica che deve essere collocata nell’ambito di quel diritto privato contemporaneo che una parte della dottrina gius-privatistica non esita a definire «liberista» (per tutti, Somma, Il diritto privato liberista. A proposito di un recente contributo in tema di autonomia contrattuale, RTDPC, 2001, p. 263 ss.). Qualificare il diritto privato – ovvero del lavoro – come «liberista» non implica alcuna valenza assiologica, che invece l’interprete esprime solo in un secondo momento, bensì ha una funzione descrittiva ed euristica per avere piena consapevolezza delle trasformazioni sociali e giuridiche in atto, così da chiamarle con il proprio nome ed evitare “imbrogli di parole”, come invece succede al “pazzo” Michele Murri in una vecchia commedia di Eduardo de Filippo.
2. Stato di disoccupazione. Innanzitutto credo sia opportuno chiarire un aspetto che, ad una prima lettura, potrebbe apparire di rilevanza marginale. L’art. 1, co. 2, lett. b della delega stabilisce che il Governo dovrà provvedere alla «ridefinizione dello stato giuridico di disoccupazione» (n. 2). La misura, inserendosi in un più ampio scenario di modifiche degli strumenti di politica attiva del lavoro, potrebbe apparire come una semplice operazione di ridefinizione della condizione soggettiva necessaria al godimento di alcune prestazioni. Sennonché, un paio di affermazioni contenute nella Relazione di accompagnamento alla delega spiegano gli effetti del testo normativo (relazione che si rivela, perciò, strumento assai prezioso per l’interpretazione della delega). Intanto, nell’esordio si legge che «è intenzione del Governo fare costante riferimento ad un obiettivo complessivo di crescita occupazionale»; si può senz’altro dire che l’intero impianto di questa radicale trasformazione del mercato del lavoro manifesta l’obiettivo di diminuire il tasso di disoccupazione del nostro Paese. Anzi, mi pare che l’andamento di questo tasso rappresenterà il metro di valutazione delle politiche del lavoro che il Governo intende avviare (e che già ha fatto con il decreto n. 368/01 sul contratto a termine): se il tasso di disoccupazione calasse, la bontà di quelle politiche sarebbe provata.
Successivamente, la relazione elenca criticamente (non in senso kantiano) alcuni obblighi che gravano sulle procedure di collocamento salvo poi accennare al riconoscimento dello stato di disoccupazione dei lavoratori part-time assunti con contratti di durata inferiore a 20 ore settimanali. Dal complesso del discorso della relazione sembra di percepire la volontà del Governo di procedere ad una modifica di questo indice nel senso di considerare «occupato» anche il lavoratore, per esempio, con 10 ore di lavoro settimanale.
La questione è tanto marginale quanto emblematica. Se si cambiassero le regole di certificazione della disoccupazione nel senso appena descritto, mi sembra ipotizzabile che il numero di lavoratori finora inclusi fra i disoccupati concorrerebbero ad incrementare il numero degli occupati con un gioco di prestigio normativo, senza però registrare un effettivo incremento del dato occupazionale. In tal senso, il tasso di disoccupazione risulterebbe diminuito senza un effettivo mutamento delle condizioni reali. Il discorso, in questo senso, potrebbe valere anche per tutta la serie di rapporti di lavoro – cui accennerò – caratterizzati da una quantità di lavoro talmente variabile da poter essere ora pari ad un lavoro a tempo pieno, ora ad un lavoro tanto breve da essere finto. Il risultato darebbe un numero di lavoratori formali che oggi non lo sono e che, in ogni caso, avrebbero un “mezzo lavoro” ovvero un ” brutto lavoro” . “Mezzo” o “brutto” non è frutto di un giudizio etico ma l’imprescindibile implementazione del principio ribadito dieci anni orsono dalla Corte Costituzionale in materia di part-time (C. Cost. n. 210/92). Lì si affermò il principio secondo il quale, l’esistenza libera e dignitosa di un lavoratore è garantita soltanto dalla retribuzione piena ex art. 36 Cost.. Orbene, il senso della inclusione di lavoratori part-time con meno di 20 ore settimanali nelle liste dei disoccupati aveva la funzione di riconoscere che l’ordinamento giuridico valutava negativamente un lavoro che negava la garanzia dell’esistenza libera e dignitosa in proporzione alla entità della riduzione del tempo di lavoro. Certo, neanche un lavoratore formale con 25 ore di lavoro la settimana può sostanzialmente raggiungere la retribuzione piena; e chissà se chi la percepisce viva poi un’esistenza realmente libera e dignitosa. Ma questo è un altro discorso.
Il punto è simbolico; dietro questa piccola modifica si nasconde l’idea secondo la quale lo status di occupato non deve essere più legato all’iconografia del lavoratore a tempo pieno e indeterminato. Il discorso è noto. Insomma, «occupazione» non è più sinonimo di «esistenza libera e dignitosa» ex art. 36 Cost. che, a sua volta, la giurisprudenza ha sancito nel nesso con la retribuzione piena. Questo nesso è saltato. «Occupato» potrà essere anche il «lavoratore occasionale». Quanto poi al nesso socio-funzionale fra lavoro ed «esistenza libera e dignitosa» sancito dalla Costituzione, questa filosofia che pervade i tempi moderni sembra travolgere la lettura costituzionalistica secondo la quale l’art. 36 Cost. «non è finalizzato solo a garantire la libertà dal bisogno materiale, ma anche al soddisfacimento di bisogni non necessariamente identificabili con la sussistenza fisiologica, funzionale alla reintegrazione delle energie spese dal prestatore e dalla sua riproduzione» (Roma, La funzioni della retribuzione, Cacucci, 1997, p. 58). La nuova occupazione è ideologicamente dissociata rispetto all art. 36 Cost. e ai suoi effetti giuridici e sociali.
3. Abrogazione del divieto di interposizione di manodopera. Il medesimo art. 1, co. 2. lett. h della delega provvede alla «abrogazione della legge n. 1369/60» perché essa apporrebbe «rigidità all’utilizzo della forza-lavoro& [che] non trovano pari nella legislazione degli altri Paesi e penalizzano la posizione delle aziende italiane nel confronto globalizzato». Al di là dell’«ossessivo richiamo all’Europa» (Roccella, Il Governo Berlusconi e l’Europa. Primi appunti sul Libro Bianco, http://www.cgil.it/giuridico/attualità.htm), mi pare di capire che le rigidità della legge sarebbero costituite dalla nozione stessa di «appalto di mere prestazioni di lavoro» ex art. 1, legge n. 1369/60. In sostanza, la delega ripudia tale divieto attraverso il ripudio della nozione di «appalto di mero lavoro subordinato» proponendo invece una nozione nuova di interposizione di manodopera. Infatti, il Governo dovrebbe provvedere alla «chiarificazione dei criteri di distinzione tra appalto e interposizione, ridefinendo contestualmente i casi di interposizione illecita solo quando manca una ragione tecnica, organizzativa o produttiva ovvero si verifichi o possa verificarsi la lesione di diritti inderogabili& del prestatore di lavoro» (n.3).
Il punto qualificante di questa norma sta nella legittimazione dell’interposizione di manodopera fuorché nei casi di mancanza di «ragione tecnica, organizzativa o produttiva». La differenza rispetto al passato è chiara. La formula legale, rinviando alle ragioni oggettive stabilite dalla legge, non concede nulla all’apprezzamento del giudice circa la certificazione dell’esistenza o meno delle condizioni oggettive previste dalla legge. Questa tecnica rappresenta la reazione alla linea di estremo rigore adottata dalla giurisprudenza (v. Cass. S.U. 21 marzo 1997, n. 2517) a fronte di una casistica molto più complessa di quella che si presentava nel 1960. La Cassazione ha sovente sanzionato i tentativi di aggiramento del divieto di interposizione attraverso forme di appalto fittizio. Questa fobia verso la discrezionalità giudiziaria, sfuggente alla razionalità economica, caratterizza buona parte del dibattito sulle politiche del lavoro e si pone l’obiettivo di sottrarre l’attività produttiva alla incalcolabilità della valutazione giudiziaria. Beninteso, non che questa aspirazione sia del tutto nuova: già nel 1993, con la legge n. 499, il legislatore delegò il Governo ad emanare norme per «rendere più precisa e rigorosa l’identificazione del mero appalto di manodopera» (art. 1, co. 1). La delega si spinge ben oltre quella del ’93: la legittimità dell’interposizione di manodopera si compie grazie all’ammissibilità della somministrazione di manodopera a tempo indeterminato (c.d. staff leasing), anche se vincolata alla presenza di ragioni tecniche, produttive od organizzative, individuate dalla legge o dalla contrattazione collettiva (n. 2).
Soprassiedo ad una serie di incongruenze nel testo della delega come l’individuazione delle causali di legittimità della somministrazione di manodopera a tempo indeterminato (lett. h, n. 2) e delle causali di legittimità dell’interposizione (lett. h, n. 3). L’elemento centrale della delega sta nell’accantonamento del lavoro interinale a vantaggio dell’appalto di mere prestazioni di lavoro a tempo indeterminato. La legge n. 196/97, salutata come uno strumento fondamentale per stimolare il mercato del lavoro e assecondare le nuove tecno-esigenze della produzione, prevede una forma di somministrazione di lavoro vincolato da limiti oggettivi e soggettivi. Nonostante il lavoro interinale possa essere considerato come una forma di esternalizzazione della gestione del lavoro (v. Carabelli, in Liso, Carabelli (a cura di), Il lavoro temporaneo, Angeli, 1999), esso consente di realizzare il «sogno nascosto» dell’imprenditore: «poter utilizzare forza lavoro sottoposta ai suoi comandi [come un lavoratore da lui dipendente], senza dover rispondere ad essa dal punto di vista contrattuale [come nel caso di attività produttiva appaltata]» (Carabelli, op. cit., p. 38).
Orbene, il divieto di interposizione ex legge n. 1369/60 consente la coesistenza giuridicamente conosciuta della relazione di potere effettiva oggettivata nella relazione contrattuale salariale. Il lavoro interinale rompe questa coesistenza. La somministrazione di manodopera a tempo indeterminato (il c.d. staff leasing) allontana ulteriormente il rischio di ricomposizione di quella coesistenza perché supera per definizione i vincoli oggettivi della legge n. 196/97.
Si è detto che «nel caso dello staff leasing la professionalità imprenditoriale del fornitore si esprime tutta sul terreno della riduzione dei costi di transazione» dell’impresa committente (Ichino, Il diritto del lavoro e i confini dell’impresa, Relazione Aidlass, Trento 4-5 giugno 1999, p. 30 dattiloscritto). Forse la razionalità della legalizzazione di questo modello giuridico di fornitura di lavoro sta più nel vantaggio che l’impresa committente trae dal fatto che il fornitore non si limita a garantire mere prestazioni di lavoro ma ad organizzarle essa stessa in favore del committente ed inserite nell’organizzazione produttiva di quest’ultimo (cfr. Carabelli, op. cit.). Rimane il fatto che la delega razionalizza, portandolo a compimento, il processo di giuridificazione dell’acquisizione di forza lavoro basata sul superamento del nesso giuridico relazionale-conflittuale insito nel lavoro salariato. La sovrapposizione del contratto al potere immette nel contratto il rischio sociale del conflitto di potere fra datore di lavoro e lavoratore. La sottrazione del potere effettivo dal contratto di lavoro sottrae a questa relazione il fattore generatore del conflitto di lavoro.
4. Orario di lavoro. Secondo l’art. 6 della delega il Governo dovrà attuare la direttiva 93/104/CE sull’orario di lavoro recependo «i criteri di attuazione di cui all’avviso comune sottoscritto dalle parti sociali il 12 novembre 1997». Questa norma (unitamente all’art. 7 sul part-time) rappresenta un tassello fondamentale nel compimento del progetto di una nuova sistemazione giuridica del mercato del lavoro. La questione dei tempi di lavoro passa fondamentalmente attraverso l’attuazione della direttiva sull’orario che porterebbe a 48 ore l’orario complessivo medio di lavoro settimanale con la garanzia di almeno 11 ore di riposo giornaliero consecutive. La questione dei tempi di lavoro è forse quella che oggi appare fra le più complesse fra quelle sul rapporto di lavoro almeno sul terreno dell’interpretazione del dato normativo. Non c’è dubbio che il recepimento della direttiva potrebbe sciogliere parecchi dubbi interpretativi (nonché parecchi vincoli).
A ben vedere, però, mi sembra che la questione per antonomasia sta in un passaggio della relazione governativa: «superare definitivamente alcune interpretazioni, tese a sminuire la riforma dell’orario di lavoro delineata nell’art. 13 della legge n. 196/97, che ancora oggi vorrebbero subordinare la possibilità di modulare l’orario di lavoro su base settimanale, mensile o annuale al vincolo delle otto ore di lavoro giornaliere come orario di lavoro normale». In sostanza, il fulcro dell’attuazione della direttiva starebbe nel superamento del tetto giornaliero delle 8 ore. Mi pare, allora, che la dottrina che ha molto insistito sulla questione dei tetti giornalieri all’orario di lavoro abbia argutamente colto il nocciolo della questione e sia stata buon profeta immaginando che la durata giornaliera è la vera posta in palio nelle brame attuative della direttiva (cfr. Leccese, L’orario di lavoro, Cacucci, 2001). Certo, si tratta di una direttiva comunitaria che va attuata; tuttavia, al di là della facoltà degli Stati membri di introdurre o applicare disposizioni nazionali «più favorevoli alla protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori» (art. 15, dir. 93/104), appare evidente che l’adattabilità dei tempi di lavoro, secondo la delega, dovrebbe portare la durata massima della giornata lavorativa a 13 ore di lavoro (derivante dalla sottrazione alle 24 ore giornaliere delle 11 ore min. di riposo consecutivo) con buona pace di chi, fedele ad un dettato costituzionale (peraltro ancora vigente), si appella al «diritto ad una durata giornaliera del lavoro adeguatamente contenuta& come diritto sociale incondizionato» (cfr. Leccese, op. cit., p. 124).
Quanto l’adeguatezza possa essere lontana dal tetto delle 13 ore giornaliere è questione che attiene all’apprezzamento sociale. Il punto è la socialità, che nella logica della delega (e della direttiva) è quella dall’adattabilità dei tempi di vita alle esigenze della produzione. Lo scambio tra riduzione del tempo di lavoro e disponibilità al suo utilizzo multiperiodale legittima orari di lavoro che alternano picchi di intensità lavorativa di 13 ore giornaliere a giornate di totale assenza di lavoro. Appare mistificante la retorica della gestione individualizzata del lavoro per assecondare le esigenze di tempo libero dei lavoratori. Il tempo di non-lavoro della razionalità produttiva capitalistica è quello ben descritto dalla cinematografia francese e inglese più recente (penso a L’emploi du temp di Laurent Cantet oppure a The Navigators di Ken Loach), che nulla ha a che fare con le esigenze personali del lavoratore.
5. Part-time. Il lavoro part-time è sicuramente il principale strumento con cui il Governo intende perseguire l’obiettivo di riduzione della disoccupazione. La prova di ciò sta nella particolare rilevanza che questo rapporto di lavoro ha nel quadro tracciato dalla delega, cui dedica l’intero art. 7. Ancora una volta il Governo lamenta una «trasposizione non rispettosa della volontà delle parti sociali a livello comunitario». Orbene, non mi pare che i decreti legislativi n. 61/00 e n. 100/01 abbiano tradito lo spirito della direttiva 97/81/CE; Al contrario, ne hanno operato un recepimento che una parte della dottrina ritiene assolutamente conforme allo spirito comunitario, almeno sotto il profilo della liberalizzazione dai vincoli giuridici previgenti (v. da ultimo, Lo Faro, Rapporto Italia. La regolamentazione del part-time in Europa, DLRI, 2000, p. 603 ss.). Ma non è questa la sede per dialogare su questo terreno.
Mi preme di più sottolineare che l’art. 7 intende delegare il Governo allo smantellamento di quel poco di regolamentazione che riguarda la gestione flessibile del lavoro part-time; superare ogni vincolo alla gestione flessibile della collocazione temporale e della durata, cioè a dire, liberare da ogni vincolo la disponibilità del tempo di lavoro ridotto sia sotto il profilo quantitativo sia sotto quello qualitativo. Infatti, l’«agevolazione del ricorso a prestazioni di lavoro supplementare nelle ipotesi di lavoro a tempo parziale c.d. orizzontale» (lett. a) e l’«agevolazione del ricorso a forme flessibili ed elastiche di lavoro a tempo parziale nelle ipotesi di lavoro a tempo parziale c.d. verticale», significa che il Governo intende superare quel minimo di regolamentazione (anzi, direi quel molto di deregolamentazione) stabilito dall’art. 3 del decreto 61. In verità, quest’affermazione può alludere a molto più, come peraltro non manca di evidenziare la relazione quando riferisce dell’intenzione di sottrarre al campo di applicazione della disciplina sul part-time «i lavoratori occasionali» (sic).
Ma è sulla gestione del tempo di lavoro che si concentra l’attenzione del Governo, secondo il quale «non si vede perché le parti, a livello individuale, non possano accordarsi anche sulla elasticità della durata della prestazione dedotta in contratto e non già soltanto sulla flessibilità della collocazione temporale». Insomma, la variabilità non dovrebbe riguardare soltanto la collocazione temporale dell’orario ma anche la sua durata; come se non fosse già possibile! In proposito, mi permetto di rinviare a quanto ho già avuto modo di dire a proposito di lavoro supplementare sostenendo che il decreto 61 offre già molta (troppa?) flessibilità nel ricorso a lavoro supplementare e clausole elastiche (v. Bavaro, Lavoro supplementare e lavoro straordinario nel rapporto di lavoro a tempo parziale, relazione al seminario Il decreto legislativo in materia di lavoro a tempo parziale, Roma, 6 ottobre 2000). Basterebbe guardare ciò che ha prodotto la contrattazione collettiva in materia di part-time per accorgersi che la legge vigente lascia molto spazio alla liberalizzazione dei tempi di lavoro (v. Leccese, in Contrattazione, retribuzione e costo del lavoro in Italia, Rapporto CNEL 2000 – 2001, di prossima pubblicazione). Forse, uno degli obiettivi della delega è quello di superare il filtro della contrattazione collettiva agendo sui soggetti (come dirò alla fine) e spostando l’asse della regolazione giuridica sul piano dell’autonomia individuale, secondo una tendenza in voga da diversi anni (v. per tutti Simitis, Il diritto del lavoro e la riscoperta dell’individuo, DLRI, 1990, p. 87 ss.).
Ad una lettura complessiva, tutta la disciplina dei tempi di lavoro sembra muoversi lungo la direttrice della subordinazione del tempo di lavoro alle esigenze della produzione. Non credo si debba pensare che si tratta soltanto di aumentare i tempi di lavoro ma anche di adattarli alle esigenze fluttuanti della produzione. In tal senso – come dimostra la Direttiva sull’orario – , complessivamente, i tempi di lavoro possono anche essere ridotti ma, prima di giungere alla complessità, i tempi di lavoro (e – corrispondentemente – di vita) devono modellarsi secondo i bisogni della produzione mercantile senza doversi misurare con vincoli ispirati da bisogni sociali (quali la disponibilità autentica ed effettiva di tempo di non-lavoro).
6. Lavoro intermittente, lavoro a progetto, lavoro accessorio. Alla medesima funzione di adattabilità quantitativa del fattore – lavoro – alle esigenze della produzione mercantile sembrano essere destinate le due tipologie di contratto di lavoro con «prestazioni di carattere discontinuo o intermittente» (lett. a) o come le «collaborazioni coordinate e continuative» derivanti da «uno o più progetti o programmi di lavoro o fasi di esso» (lett. c) previsti dall’art. 8 della delega.
Si legge nella relazione che il lavoro intermittente presuppone «prestazioni svolte con discontinuità pur nell’ambito dell’aspettativa datoriale di poter contare sulla disponibilità del prestatore». Ebbene, questa fattispecie di job on call (lavoro a chiamata) è, per quanto dispiacente, una modalità di lavoro che potrebbe essere richiesta ad un lavoratore part-time cui venisse richiesto lavoro supplementare contestualmente alla variazione della collocazione temporale tramite clausole elastiche. Non è il caso di chiarire i termini della questione con un esempio; basta solo ricordare che l’ipotesi di accordo della Electrolux Zanussi presentata nel 2000 (poi respinta dai lavoratori in referendum) prevedeva una forma di lavoro a chiamata che, almeno sotto il profilo della disponibilità temporale, mi sembrava legittima nei termini previsti dal decreto 61. In altre parole, la discontinuità della prestazione sta nella possibilità di richiedere prestazioni di lavoro in base alle esigenze produttive. In tal senso, basta un contratto part-time, stipulato in un’azienda con un contratto collettivo aziendale che consenta una causale generica di elasticità della prestazione nonché di richiedere lavoro supplementare nei limiti del tempo pieno: perfettamente il linea con il decreto 61; previo consenso del sindacato.
Ma, a ben vedere, il lavoro intermittente è collocato fuori dall’ambito del part-time per «aggirare l’ostacolo rappresentato dal divieto di assoggettare il lavoratore a tempo parziale – ad un potere di chiamata esercitabile& ad libitum-» (come bene ha fatto notare Voza, Osservazioni intorno al Libro Bianco sul mercato del lavoro, in corso di pubblicazione in LG, 2002, n. 1 che richiama la citata C. Cost. n. 210/92). Il Governo, infatti, ritiene di «inquadrare questo fenomeno non tanto come sottospecie del part-time, chiarendone i caratteri poiché il lavoro intermittente deve essere l’ideale sviluppo del lavoro temporaneo tramite agenzia, da inquadrarsi non necessariamente nello schema del lavoro subordinato»: in soldoni, un lavoratore interinale non subordinato. Questo è un punto essenziale: la rarefazione del vincolo giuridico già operata fra l’impresa utilizzatrice e il lavoratore temporaneo si compie anche nel rapporto fra questo e l’impresa fornitrice grazie alla sottrazione dall’area della subordinazione e che rifletterebbe i suoi effetti anche sulla relazione effettiva di lavoro con l’utilizzatore. Questo mi sembra l’elemento qualificante poiché, diversamente, non si coglierebbe la peculiarità rispetto al lavoro interinale. Insomma, cercando di osare al di là del sibillino dato testuale, mi sembra che l’obiettivo sia quello di rarefare i vincoli giuridici derivante dalla subordinazione del lavoro interinale. Dopo l’assalto ai vincoli del contratto di fornitura, qui tocca al contratto di lavoro temporaneo.
Su un altro versante si colloca il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa derivante da «uno o più progetti o programmi di lavoro o fasi di esso» (lett. c). La relazione spiega che è un rapporto «in base al quale il lavoratore assume stabilmente, senza vincolo di subordinazione, l’ incarico di eseguire, con lavoro prevalentemente od esclusivamente proprio, un progetto o un programma di lavoro, o una fase di esso, concordando direttamente con il committente le modalità di esecuzione, la durata, i criteri ed i tempi di corresponsione del compenso». Orbene, francamente non riesco a cogliere i tratti differenziali rispetto alla collaborazione coordinata e continuativa così come finora l’abbiamo conosciuta nell’ordinamento giuridico del lavoro. Probabilmente, questo è l’unico aspetto della delega che sembra muoversi in senso diverso rispetto al complesso normativo. Infatti, secondo l’elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale tali collaborazioni sono sempre state sussunte nell’area del lavoro autonomo senza alcuna regolazione giuridica sostanziale. Non a caso nella relazione il Governo riferisce di proposte di legge presentate nella passata legislatura (il c.d. statuto dei lavori) e che in esso suscitano notevoli perplessità perché, pare di capire, quelle proposte intaccavano la natura autonoma di tali rapporti di lavoro. Anche in questo caso, non è il caso di entrare nel merito; tuttavia, facendo il processo alle intenzioni (d’altronde, il tenore della delega è più simile ad un programma di politica del lavoro che ad una legge-delega), mi verrebbe da pensare che il lavoro a progetto ha la finalità di neutralizzare una sempre più pressante richiesta di regolazione delle collaborazioni coordinate e continuative attraverso la predisposizione di principi e criteri direttivi che aggiungono poco allo stato dell’arte. Prevedere «tutele fondamentali a presidio della dignità e della sicurezza dei collaboratori» non è appunto elemento sufficiente a garantire un livello di tutele più accentuato rispetto all’attuale regime giuridico di tali atipici lavoratori. Si tratta anche in questo caso – come per l’interposizione – di sottrarre gli attori economici al rischio dell’incalcolabile contenzioso giudiziario. Più che di predisposizione di garanzie è una delega alla razionalizzazione giuridica di uno strumento assai diffuso nella organizzazione del lavoro.
Sempre nell’art. 8 mi sembra interessante accennare al lavoro occasionale, relegato in un contesto limitato perché dovrebbe essere destinato «a opportunità di assistenza sociale, rese a favore di famiglie e di enti con e senza fine di lucro, da disoccupati di lungo periodo, altri soggetti a rischio di esclusione sociale» e giù di lì. Il linguaggio del legislatore appare sempre piuttosto ambiguo e talvolta poco rigoroso da un punto di vista tecnico giuridico, tanto da impedire di cogliere fino in fondo i caratteri delle proposte. In tal senso, non si può comprendere cosa debba intendersi per «assistenza sociale» soprattutto quando questa locuzione ha un significato tutto sommato abbastanza determinato nel diritto del lavoro (anzi, nel diritto della sicurezza sociale). Con uno sforzo di fantasia direi che il legislatore ha voluto riferirsi a forme di lavoro – sociale – che comportino prestazioni di cura e assistenza presso famiglie in cui sarebbe necessario prestare attività a favore di anziani o portatori di handicap ovvero presso enti operanti nel c.d. terzo settore. Questa interpretazione, che mi sembra appropriata, denuncia l’altra faccia del retroterra culturale che anima la delega: non più forme di lavoro domestico ovvero di lavoro subordinato presso organizzazioni di volontariato o cooperative sociali ma veri e propri «lavori occasionali e accessori». Se è vero che il linguaggio ha una forte valenza simbolica, mi sento di poter dire che questi «lavoratori accessori» rappresentano la formalizzazione giuridica, per quanto parziale, di quel processo di istituzionalizzazione di lavori servili definito «sudafricanizzazione della società», «in cui una parte della popolazione si accaparra le attività ben pagate e costringe un altra parte al ruolo di servitore» (Gorz, Metamorfosi del lavoro, Bollati Boringhieri, 1992, p. 173): effetto (feudale) della moderna razionalità economica.
7. Abrogazione parziale della tutela reale. L’art. 10 della delega compendia la strategia politica del Governo. Dopo tanto parlare, finalmente c’è un dato oggettivo su cui misurare la proposta caldeggiata da una parte della dottrina (in verità più sui mass media che nelle sedi scientifiche) di sperimentare forme di moratoria dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. In sintesi, la proposta avanzata prevede che, per un periodo sperimentale di 4 anni (lett. b) – consentendo eventuali proroghe – alla sanzione della reintegrazione ex art. 18 St. lav. si potrà alternare una indennità risarcitoria in connessione «a misure di riemersione, stabilizzazione dei rapporti di lavoro sulla base di trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato, politiche di incoraggiamento della crescita dimensionale delle imprese minori». Ancora una volta la delega non brilla per chiarezza, costringendo così l’ interprete ad una non voluta prudenza.
Rispetto al primo criterio, si potrebbe ipotizzare che la tutela reale è sospesa a favore di forme di risarcimento monetario nel caso di imprese che decidessero di regolarizzare rapporti di lavoro che, evidentemente per ragioni di dimensione dell’impresa, sarebbero tutelati dall’art. 18 St. lav. Infatti, la misura non sarebbe destinata alla mera riemersione dal c.d. lavoro nero, atteso che se la riemersione riguardasse imprese con meno di 15 dipendenti nell’unità produttiva non sarebbe comunque assoggettata al regime di tutela reale. Faccio notare che il problema dell’emersione del lavoro nero riguarda soprattutto queste piccole imprese e quindi la delega non produrrebbe grande effetto su queste.
Con riferimento alla stabilizzazione del lavoro a termine, vale solo la pena notare che, per come è posto nella delega, alla luce del debole limite quantitativo di utilizzazione di lavoratori a termine previsto dall’art. 10, co. 7, d. lgs. n. 368/01, l’effetto prodotto sarebbe quello – già denunciato – secondo cui le nuove assunzioni a tempo indeterminato avverrebbero soltanto attraverso il viatico del contratto a termine alla stregua di un lasciapassare per l’aggiramento dell’art. 18 St. lav. (v. Alleva, Andreoni, Angiolini, Coccia, Naccari, La delega al Governo per il mercato del lavoro: un disegno autoritario nel metodo eversivo nei contenuti, in http://www.cgil.it/giuridico/Politiche).
Infine, c’è l’ipotesi dei lavoratori assunti da imprese con meno di 15 dipendenti e che, con quella(e) assunzione(i), supererebbe(ro) quella soglia dimensionale rientrando nell’area di applicazione dell’art. 18 St. lav. Orbene, al di là dei numerosi profili tecnici che andrebbero chiariti, rimane al fondo l’idea che per molte imprese il pericolo di passare sotto l’egida dell’art. 18 St lav. sarebbe la causa del – nanismo – del tessuto imprenditoriale italiano. Confesso di non avere argomenti contrari ma di nutrire molte perplessità. Ad ogni modo, sarei curioso di conoscere qual è la ragione per la quale le migliaia di imprese con meno di 10 dipendenti non superano questa soglia, pur mantenendosi al di sotto dei 15 dipendenti, quindi in regime di tutela indennitaria e non reintegratoria.
In ogni caso, ritengo che le ragioni fondamentali di superamento dell’art. 18 siano due, reciprocamente connesse. Innanzitutto perché l’attuale assetto giuridico-sanzionatorio affidato al potere decisionale del giudice espone l’impresa alla sua discrezionalità incalcolabile (allo stesso modo di quanto ho detto per la nozione di interposizione illecita e delle collaborazioni a progetto). Il giudice ha il potere-dovere di verificare che sussista un motivo giustificato al licenziamento e ciò viene considerato come una intrusione nelle prerogative imprenditoriali. Il culmine dell’oltraggio al potere autoritario dell’impresa sta nella limitazione-violazione del potere imprenditoriale che si compie con l’ordine di reintegrazione ex art. 18 St. lav. A questo proposito importa poco se si tratta del giudice o dell’arbitro – come previsto dall’art. 11, lett. f della delega – purché nessuno violi l’autorità dell’imprenditore nella organizzazione del lavoro. In questo senso, l’indennizzo è preferibile perché a conti fatti non impedisce la decisione di espellere un lavoratore dal processo produttivo. Per l’impresa, l’incertezza sull’organizzazione del lavoro derivante da un processo è peggiore di un costo certo di indennizzo, anche sostanzioso, da erogare a favore di lavoratori licenziati senza motivo valido. Questa è la colpa dell’art. 18 St. lav. E’ questione di essere «padroni in casa propria», dove la casa è l’impresa e il padrone è il padrone. L’abrogazione temperata dell’art. 18 St. lav. è l’abrogazione dello strumento che attribuisce potere al lavoratore, il potere di decidere che, qualora fosse carente il motivo giustificato di licenziamento, ritorna nel posto di lavoro, interdicendo il potere avverso dell’impresa.
8. Sindacato comparativamente rappresentativo. Come non manca di sottolineare con un certo orgoglio la relazione governativa, «la delega introduce per la prima volta& una nuova espressione (“contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente rappresentative”& )». In effetti, questa locuzione appare in numerose norme della delega: nella determinazione delle ragioni tecniche, produttive e organizzative che giustificano la somministrazione di manodopera a tempo indeterminato, nella gestione del supplementare nel part-time, nell’individuare il lavoro intermittente, nonché nell’apportare eventuali modifiche alla disciplina di lavoro notturno e straordinario (art. 6, co. 2), nel prevedere programmi di formazione per il reinserimento di lavoratori in eccedenza (art. 3, lett. g), per determinare il contenuto (lett. i) e le modalità (lett. j) dell’attività formativa (art. 5) nonché per individuare il curioso organo amministrativo deputato alla certificazione dei contratti di lavoro (art. 9, lett. b).
Ebbene, la ratio di questa disposizione è espressa senza infingimenti dallo stesso Governo allorché dichiara candidamente che tale previsione è finalizzata a garantire certezza interpretativa al fenomeno degli – accordi separati-, rafforzandone la validità sulla base del principio del ” reciproco riconoscimento”». Orbene, è a tutti noto il movente di questa disposizione: la genesi politico-metodologica del decreto legislativo sul contratto a termine o la vicenda del rinnovo del contratto integrativo del settore metalmeccanico, nelle quali la Cgil (nel secondo caso la Fiom) non hanno sottoscritto l’accordo manifestando un forte dissenso. Dato che si tratta di interpretazioni di intenzioni – come ho già ammesso – non ho remore a dichiarare che si tratta di una disposizione che si pone, in generale, il problema della legittimazione normativa degli accordi separati e, in particolare, l’obiettivo di neutralizzare anche sul piano normativo il dissenso della più importante organizzazione sindacale dei lavoratori. Sulla opportunità di assecondare spinte alla frammentazione del fronte sindacale storicamente più rappresentativo ho già espresso la mia opinione a proposito della vicenda dei metalmeccanici in questa rivista cui rinvio (v. Bavaro, Sull’accordo “separato” dei metalmeccanici). In questa sede mi sembra sufficiente manifestare condivisione per l’interpretazione avanzata da chi sostiene che, per esempio, «si potranno validamente contrattare le condizioni di somministrazione permanente dei lavoratori, a dispetto dell’opposizione del sindacato davvero rappresentativo, anche di quello che, in ipotesi associasse la maggioranza assoluta dei lavoratori di un certo settore» (Alleva, Andreoni, Angiolini, Coccia, Naccari, op. cit.).
La verità è che se, oggi, il criterio della coparazione più rappresentativa garantisce non dal rischio di accordi “separati” ma almeno che ci sia il consenso dei sindacati più rappresentativi all’esito della comparazione, nelle intenzioni del Governo si vuole frenare il potere interdittivo delle organizzazioni più conflittuali. Senza alcuna volontà, di risolvere la questione della misurazione effettiva della rappresentatività negli agenti negoziali, come ha esplicitamente dichiarato nel Libro Bianco. Non è ostilità verso il sindacato tout court, ma verso il sindacato tentato dalla conflittualit.
9. Conclusioni. Dopo questo rapidissimo volo sulla delega, ritengo di poter confermare l’ipotesi di partenza: se dovessi indicare le caratteristiche del diritto del (mercato del) lavoro che emerge compiutamente dalle viscere della delega direi che è un diritto che esprime un nuovo ordine giuridico del mercato del lavoro di tipo liberista. Non credo che il diritto del lavoro possa, ad oggi, essere concepito fuori del mercato. Tuttavia, ritenendo corretta la tesi secondo la quale il mercato ha ontologicamente un proprio ordine giuridico (v. Irti, L’ordine giuridico del mercato, Laterza, 1998; considerazioni che si possono leggere già nelle Note sul Machiavelli di Gramsci), appare pienamente condivisibile, ed estensibile ad ampio raggio, l’interpretazione che coglie in questo processo «un’operazione di manipolazione genetica del diritto del lavoro» (Voza, op. cit.). Esso sembra rinunciare alla funzione costituzionale di sottrazione alle leggi del mercato capitalistico almeno del mercato di quella particolare merce che è il lavoro umano.
Il nuovo diritto del lavoro è ben noto all’Europa; a quella che ha conosciuto il Governo Thatcher, cui il Governo italiano in carica non nasconde di ispirarsi. Come ci spiegò Lord Wedderburn (Libertà di associazione e filosofie del diritto del lavoro: l’ideologia Thatcher, in I diritti del lavoro, Giuffrè, 1998) il programma di diritto del lavoro prevedeva la «destabilizzazione del collettivismo» poiché bene ha detto un economista critico francese quando sostiene che il liberismo è «un programma di distruzione metodica dei collettivi» (Bordieu, L’essenza del neoliberalismo, Le Monde Diplomatique, marzo 1998). Ebbene, nella destrutturazione individualista dei diritti del lavoro che ispira la delega si può cogliere la tendenziale sottrazione alla sfera giuridica del lavoro di quelle tutele che istituiscono il contro-potere dei lavoratori. Il divieto di interposizione, la disponibilità dei tempi, la tutela reale, rappresentano garanzie potestative individuali imprescindibili per una qualsiasi strategia fondata sui diritti fondamentali. Il programma di Governo è ben altro. La delega lo dimostra, come pure dimostra «ancora una volta [che] il diritto, nella sua versione dominante, si dimostra in parte ancillare all’esito dei rapporti di forza sociali ed economici» (Fumagalli, Flessibilità e gerarchie nel mercato del lavoro: il potere dell’economia sul diritto, in RGL, 2001, p. 240).