Volker Telljohann – Fondazione Istituto per il Lavoro
I Patti per l’occupazione e la competitività
La sfida di migliorare la situazione occupazionale in Europa è stata raccolta in molti Stati membri dell’Unione europea stipulando degli accordi collettivi a livello intercategoriale, settoriale e aziendale, caratterizzati dal fatto che stabiliscono un nesso fra occupazione e competitività.
A livello intercategoriale si tratta in genere di accordi tripartiti che non riguardano solo l’occupazione ma trattano in termini generali un’ampia gamma di tematiche quali la politica dei redditi, la previdenza sociale e la spesa pubblica. Lo stimolo iniziale è spesso venuto, come per esempio nel caso italiano, dalla necessità di soddisfare i criteri per la partecipazione all’ Unione economica e monetaria. (1)
A livello settoriale e aziendale si può invece parlare di Patti per l’ occupazione e la competitività che sono bipartiti in quanto conclusi tra le parti sociali. Essi trattano dell’occupazione in termini specifici definendo la riduzione, conservazione o creazione di posti di lavoro. Rispetto a questi patti dall’Osservatorio europeo per le relazioni industriali (Eiro) (2) si evince che la contrattazione collettiva in materia di occupazione e competitività si è notevolmente intensificata durante gli anni novanta.
Considerando l’importanza prioritaria attribuita all’occupazione nella politica dell’Unione europea da un lato e il bisogno di informazioni sui patti per l’occupazione e la competitività dall’altro nel 1998 la Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro ha avviato un progetto sulla natura e l’estensione di questi patti a livello aziendale e settoriale. (3) L’obiettivo della ricerca consisteva nel raccogliere informazioni rispetto ad aspetti finora non sufficientemente conosciuti, fra cui
· le motivazioni per stipulare patti per l’occupazione e la competitività,
· le dinamiche del processo negoziale e
· gli effetti sull’occupazione e la competitività.
Nei vari Paesi gli accordi sono stati denominati in modo diverso, ma in quasi tutti i casi si tratta di tentativi di mettere in pratica un approccio partecipativo per garantire i livelli di occupazione e di competitività.(4) I contenuti principali di questi patti riguardano:
1. il miglioramento dei livelli di competitività,
2. la salvaguardia dei livelli occupazionali,
3. la partecipazione dei sindacati e delle strutture di rappresentanza degli interessi.
I patti per l’occupazione e la competitività possono essere considerati una nuova tipologia di contrattazione collettiva che si differenzia dalla tradizionale contrattazione di tipo distributivo in quanto tratta la materia della competitività delle imprese. L’emergere dei patti per l’occupazione e la competitività ha influenzato anche i dibattiti sull’evoluzione della contrattazione collettiva.
E’ ormai un’opinione diffusa che negli ultimi anni sia avvenuto uno spostamento dalla contrattazione di tipo distributivo a una contrattazione di tipo competitivo. Questa nuova tendenza è dovuta al fatto che negli anni ottanta e novanta è emerso con chiarezza che la competitività delle imprese nel lungo periodo dipende dalla loro capacità di adottare in modo efficiente nuove tecnologie, oltre che nuove forme organizzative e prassi lavorative, atte a consentire l’innovazione e l’adattabilità. Nell’ambito di questa nuova tipologia di contrattazione viene introdotto sempre più spesso la nozione di – partnership – che in genere viene usata nei casi di modernizzazione negoziata, in casi quindi in cui le strutture di rappresentanza degli interessi vengono coinvolti nei processi di riorganizzazione o ristrutturazione. La prassi sembra suggerire che questo approccio di contrattazione cooperativa costituisce l’unica alternativa possibile al cambiamento attraverso i meccanismi di mercato. Questo nuovo tipo di contrattazione, che cerca di trovare delle soluzioni rispetto agli effetti sulle condizioni sociali dei dipendenti, è infatti considerato la strada migliore per gestire i processi di cambiamento.
Un altro aspetto interessante dei patti per l’occupazione e la competitività è il fatto che essi sembrano rappresentare una tendenza comune a tutti gli Stati membri, il che fa pensare ad una crescente convergenza nei modi di procedere. Secondo Marginson e Sisson (5) le relazioni industriali in Europa sono invece caratterizzate sia da una diversificazione, sia da una convergenza. La diversificazione si esprime in differenze interne ai sistemi nazionali e rispecchia la richiesta del management di mettere a punto sistemi specifici dell’azienda, per far fronte ad una concorrenza che è di portata sempre più internazionale. Le tendenze verso la convergenza nascono invece sia dalle pressioni globali, sia dal processo di europeizzazione, conseguente agli effetti dell’Unione economica e monetaria e, più in generale, all’evoluzione delle dimensioni economica, sociale e politica dell’Unione europea.
In questo contesto si pone comunque la domanda su come interpretare e qualificare gli accordi. Fondamentalmente esistono due punti di vista. Secondo la prima interpretazione i patti per l’occupazione e la competitività sono da considerare una tappa positiva nell’evoluzione della contrattazione collettiva per garantire i livelli occupazionali e/o creare le condizioni per un incremento dell’occupazione attraverso una maggiore competitività. L’altra interpretazione considera questi patti praticamente una forma di contrattazione caratterizzata da concessioni unilaterali. La questione è quindi se questi patti rappresentano un ”equo” compromesso tra le parti che garantisce un ”quid pro quo” o se si tratta invece di una forma di concession bargaining, cioè di una contrattazione basata su concessioni unilaterali.
Per quanto riguarda gli attori in alcuni casi i patti per l’occupazione e la competitività hanno visto anche interventi pubblici in materia di imposte, contributi sociali, formazione, istruzione e innovazione; questi patti, quindi, tentano di combinare l’evoluzione delle relazioni industriali con una politica attiva in materia di mercato del lavoro, fiscalità ed innovazione. Di conseguenza rappresentano una logica diversa da quella della teoria neoclassica.
La ricerca della Fondazione europea è stata focalizzata fra l’altro sulle motivazioni che spingono i protagonisti a stipulare patti per l’occupazione e la competitività. I risultati della prima fase del progetto suggeriscono che le motivazioni del management non siano limitate alla riduzione del costo del lavoro ma estese anche alla necessità di conservare le proprie risorse umane e di potenziare la motivazione e l’identificazione dei dipendenti con l’impresa. Inoltre sembra che per il management le concessioni in materia di orario di lavoro sono più importanti delle concessioni salariali. Per quanto riguarda gli interessi del sindacato essi sono in genere più ampi della semplice tutela del posto del lavoro puntando invece a mantenere in vita l’impresa proponendo delle specifiche strategie di politica industriale. I Governi invece sono interessati a spingere le parti sociali ad assumersi una maggiore responsabilità per le questioni dell’occupazione. Nella maggior parte dei casi i governi hanno un ruolo di mediatori evitando di mettere a disposizione le proprie risorse.
In sintesi la logica che sta alla base dei patti per l’occupazione e la competitività consiste nella necessità di una concertazione efficace per poter gestire i processi di ristrutturazione. Attraverso il coinvolgimento delle strutture sindacali il management riconosce anche i limiti delle regole del mercato ”puro”. Se per il sindacato il suo coinvolgimento da un lato rappresenta una fonte di riconoscimento, dall’altro lato implica anche la sfida di dover confrontarsi con le ragioni del management.
I Patti nel settore dell’energia
Nel settore dell’energia (6) la direttiva 96/62 della Comunità europea ha imposto agli Stati membri un processo di liberalizzazione del mercato che costringe le imprese dell’energia a confrontarsi con l’esigenza di dover gestire il passaggio da un regime di quasi monopolio a una situazione di competizione a livello internazionale. Nel settore dell’energia i patti per l’occupazione e la competitività sono quindi il risultato di un processo di riflessione sulla competitività delle rispettive imprese e sugli strumenti da adottare per affrontare la competizione con altri soggetti. Rispetto a quanto sostenuto sopra solo i casi britannici rappresentano un’eccezione avendo intrapreso il processo di privatizzazione prima delle altre imprese analizzate e nell’ambito delle riforme avviate dal governo nazionale.
È la regola che la negoziazione dei patti per l’occupazione e la competitività parte dalle iniziative del management e dalla loro esigenza di avviare i processi di ristrutturazione. Di conseguenza nella maggior parte dei casi il management si presenta al tavolo di negoziazione già con proposte e richieste molto concrete. In genere le strategie proposte per affrontare la liberalizzazione del mercato sono centrate su più obiettivi fra cui la riduzione dei costi, la diversificazione dei prodotti e la maggiore attenzione alle esigenze dei clienti. In questo contesto l’estensione delle varie forme di flessibilità viene considerata fondamentale, in particolar modo la flessibilizzazione dell’orario di lavoro. È proprio sull’argomento degli orari che si è di fronte forse all’unico caso in Europa nel quale anche un governo assume un ruolo (indiretto) nell’ambito di un patto per l’occupazione e la competitività. Si tratta del caso francese, dove lo Stato cerca di favorire l’applicazione delle possibilità di riduzione dell’orario di lavoro per salvaguardare o incrementare i livelli occupazionali.
Nei casi presi in esame domina la volontà da parte del management di arrivare, nell’ambito dei processi di ristrutturazione, a soluzioni consensuali. La ricerca del consenso spinge il management a coinvolgere le rappresentanze dei lavoratori in modo da garantire il loro consenso e dare legittimità alle misure da prendere per garantire la competitività dell’impresa.
I patti per l’occupazione e la competitività analizzati non sono quindi caratterizzati da concessioni unilaterali da parte dei dipendenti e le loro rappresentanze ma da veri e propri scambi che possono offrire vantaggi reciproci. Come dimostrano i casi esaminati, i rappresentanti dei lavoratori possono ottenere da parte del management la disponibilità a:
– limitare il numero degli esuberi a volte combinata anche con garanzie occupazionali per il futuro,
– utilizzare lo strumento della riduzione dell’orario di lavoro,
– introdurre o estendere forme di partecipazione diretta.
In cambio le rappresentanze dei lavoratori sono disposti ad accettare misure che possono contribuire ad un incremento della produttività del lavoro, come per esempio la:
– flessibilizzazione dell’orario di lavoro e dell’organizzazione del lavoro,
– mobilità del lavoro,
– riduzione dei costi del lavoro.
È da evidenziare che l’argomento della formazione professionale e della occupabilità (employabilty) in generale trovano solo scarso spazio nei patti per l’occupazione e la competitività analizzati.
I negoziati sono in genere all’insegna della ricerca del consenso e, quindi, si cerca di individuare dei vantaggi reciproci. Di conseguenza i processi negoziali di solito non sono accompagnati da scioperi o altre forme di conflitto. Nei casi più avanzati i patti per l’occupazione e la competitività hanno portato a una vera e propria ridefinizione della cultura d’impresa, basata su una visione a lungo termine e su principi etici condivisi dagli attori, assumendo così una strategia di corporate governance che prende in considerazione anche gli interessi degli stakeholder.
Per quanto riguarda la reciprocità è comunque da sottolineare che essa è meno sviluppata nei casi del Regno Unito. In questi casi sarebbe forse più preciso parlare di approcci unilaterali con qualche apertura da parte del management. Il processo di privatizzazione delle imprese britanniche viene infatti gestito in modo da garantire la produttività piuttosto che la compatibilità sociale.
Ambiguità e contraddizioni: nuovi ruoli per gli attori?
Non sempre, però, i patti per l’occupazione e la competitività sono in grado di fornire certezze ai dipendenti. Essendo le imprese esposte ai processi di liberalizzazione dei mercati e quindi a una competizione ormai su scala internazionale, i patti per l’occupazione e la competitività a volte già dopo periodi relativamente brevi non sono più in grado di garantire l’adeguamento dell’impresa al contesto di competizione in rapido mutamento e si pone la necessità di ridefinire i suoi contenuti.
Se in generale i patti per l’occupazione e la competitività sono anche una fonte di legittimità, sia per i rappresentanti dei dipendenti sia per il management, è evidente che il bisogno di un riadeguamento e quindi di richieste di ulteriori concessioni non può che avere conseguenze negative per la credibilità degli attori aziendali che, a volte, si può trasformare in una crisi di legittimazione.
Di conseguenza si pone la domanda se le scelte del management nell’ambito del processo di ristrutturazione siano da considerare sempre adeguate e sufficientemente tempestive. Come hanno dimostrato i casi presi in esame la capacità di prevedere e anticipare i processi di liberalizzazione del mercato, di scegliere quindi una strategia proattiva (pro-active) allarga notevolmente lo spazio di azione e le possibilità di scegliere un approccio offensivo alle necessità di ristrutturazione caratterizzato da scelte di innovazione, diversificazione e miglioramento della qualità e non solo di semplice riduzione dei costi.
Dal punto di vista delle rappresentanze dei lavoratori diventa quindi decisivo saper interpretare e valutare i progetti manageriali. Dal momento che il management sceglie la via del coinvolgimento per legittimare il progetto di ristrutturazione le rappresentanze dei lavoratori devono decidere quale ruolo assumere. Una posizione di mera opposizione ai progetti del management non sembra realistico in quanto non rappresenta un’alternativa né corrisponderebbe alle aspettative dei dipendenti. Infatti, in quasi tutti i casi analizzati siamo di fronte ad un approccio assai pragmatico piuttosto che ideologico.
Anche se sembra ragionevole accettare il coinvolgimento, rimane comunque da chiarire quale carattere esso debba assumere: un coinvolgimento prevalentemente formale e nell’ambito di un progetto prestabilito dal management o un coinvolgimento reale in un processo ancora aperto. Esiste quindi la possibilità di assumere un ruolo reattivo e difensivo che si pone l’obiettivo di limitare i danni o di tentare di partecipare sulla base di una strategia propositiva. In quest’ultimo caso l’approccio alla ristrutturazione richiede da parte del management delle informazioni esaurienti ed in anticipo. Da parte delle rappresentanze, invece, sono richieste competenze specifiche che possano garantire una loro autonomia progettuale. Seguendo questo metodo che implica da parte del management la rinuncia alle sue tradizionali prerogative si riesce meglio a creare una fiducia reciproca ed a garantire la credibilità degli attori coinvolti. I casi analizzati sembrano fornire ancora pochi elementi in questa direzione.
Ma la condivisione del progetto e quindi la necessaria motivazione durante la fase di applicazione non dipende solo dalla qualità di partecipazione delle rappresentanze dei lavoratori; sono altrettanto importanti le forme di partecipazione diretta dei dipendenti, come abbiamo visto in alcuni dei casi analizzati. Ormai numerose ricerche sottolineano che rispetto alla scelta degli attori nei processi partecipativi il coinvolgimento dei dipendenti stessi è fondamentale per garantire l’utilizzo delle loro conoscenze e della loro creatività che è, a sua volta, indispensabile per un’efficace implementazione di innovazioni organizzative (7).
Infine, rimane da evidenziare che i patti per l’occupazione e la competitività rappresentano un aspetto significativo della tendenza generale di decentramento della contrattazione collettiva. Ma è comunque da tener presente che i processi di decentramento sono più o meno spinti a seconda del contesto nazionale e le rispettive tradizioni di relazioni industriali. Nell’ambito dei casi analizzati la Francia ed il Regno Unito rappresentano probabilmente i due poli estremi. In ogni caso, i risultati del decentramento sono ambivalenti: i casi analizzati dimostrano che il decentramento può contribuire a raggiungere nuove conquiste o più semplicemente a un miglioramento di certe norme definite nel contratto collettivo, così come può anche contribuire ad un peggioramento dei medesimi.
È evidente che nel caso dei patti per l’occupazione e la competitività si possono verificare delle contraddizioni fra le scelte delle rappresentanze dei lavoratori, da un lato, e le norme stabilite dai contratti collettivi firmati dalle organizzazioni sindacali, dall’altro. Questo fenomeno del micro-corporatismo si pone soprattutto nei casi di un approccio difensivo. I casi più drammatici da questo punto di vista sono le aziende della ex Ddr. Anche se esiste già una differenziazione, per quanto riguarda le norme contrattuali, fra i Laender dell’ovest e quelli dell’est, nei patti per l’occupazione e la competitività si è rimasti ancora al di sotto del già inferiore livello del contratto collettivo per i Laender dell’Est.
Esiste quindi il rischio che il contratto collettivo perda la sua funzione di stabilire degli standard minimi per tutti i lavoratori di una determinata categoria. Si potrebbe ipotizzare che questo problema sia di più difficile soluzione in sistemi di rappresentanza a canale doppio dove le rappresentanze dei lavoratori godono di una più elevata autonomia rispetto al sindacato esterno che non in sistemi a canale unico dove siamo di fronte ad una più forte integrazione fra rappresentanze aziendali ed organizzazioni sindacali.
Ai patti per l’occupazione e la competitività sembra comunque legato il rischio di una segmentazione e gerarchizzazione del mercato del lavoro. Rispetto al trattamento economico troviamo per esempio una differenziazione fra l’organico esistente e nuovi assunti. Un altro esempio riguarda la gestione degli esuberi. Da un lato, all’interno delle aziende vengono sviluppate soluzioni solidali come per esempio la riduzione dell’orario di lavoro per tutti accettando anche una riduzione della retribuzione per rendere in questo modo l’occupazione esistente più sicura. Dall’altro lato, quando si tratta di ridurre l’organico la prima misura presa in esame è in genere una strategia di insourcing scaricando in questo modo il problema su una fascia del mercato del lavoro ancora più debole.
Concludendo, si può sostenere che in quasi tutti i paesi presi in esame i patti per l’occupazione e la competitività, in linea di massima, contribuiscono ad un processo di modernizzazione del sistema di relazioni industriali, sia dal punto di vista delle procedure, sia dal punto di vista dei contenuti. Le tendenze più significative riguardano il decentramento della contrattazione, l’introduzione di nuove procedure di partecipazione diretta e indiretta e la flessibilizzazione degli orari di lavoro e dell’organizzazione del lavoro. Allo stesso tempo non si può non mettere in evidenza i vari rischi legati a questo pur auspicabile processo di modernizzazione delle relazioni industriali. Questi rischi non riguardano solo la segmentazione del mercato del lavoro, lo svuotamento del contratto collettivo di categoria o l’utilizzo della flessibilizzazione a vantaggio unilaterale dell’azienda ma in una certa misura anche la tendenza a introdurre nuove forme di partecipazione.
Rispetto al tema della partecipazione si pongono una serie di domande che devono essere chiarite se si vuole evitare il rischio di un fallimento delle nuove esperienze. È da chiarire sia il rapporto fra partecipazione e contrattazione, sia il rapporto fra partecipazione diretta e quella indiretta. Se non esiste chiarezza sulle rispettive competenze e sui raccordi fra i diversi livelli le esperienze rischiano il fallimento. Inoltre, si pone la necessità di accompagnare l’introduzione di nuove forme di partecipazione da relative misure di formazione perché la partecipazione che non si può basare sulle competenze degli attori coinvolti rimane necessariamente formale e non arriva ad assumere caratteristiche di vero e proprio confronto e scambio.
A livello di policy making si pongono ancora le stesse esigenze che sono già state definite da Sisson e Artiles (8). Un aspetto importante riguarda il bench marking e la diffusione di buone pratiche. Sarebbe infatti auspicabile ampliare la base di conoscenza per ottenere un quadro più chiaro e affidabile per quanto riguarda la diffusione e i contenuti dei patti per l’occupazione e la competitività.
Inoltre, abbiamo cercato di dimostrare che il dialogo sociale è fondamentale per garantire sia la negoziazione, sia l’applicazione dei patti per l’occupazione e la competitività. Da questo punto di vista sono di estrema importanza le iniziative a livello europeo riguardanti lo statuto della società europea, l’estensione dei diritti di informazione e consultazione e il consolidamento e l’estensione dei diritti dei Comitati aziendali europei.
Infine, viene confermato anche da questa ricerca che l’argomento della occupabilità (employability) trova poco spazio nei patti per l’occupazione e la competitività. Come evidenziano anche Sisson e Artiles (9) è spiegabile che le imprese non investano in misure orientate a migliorare l’occupabilità soprattutto se poi non sono sicure di poterne trarre dei vantaggi. Di conseguenza starà ai policy makers promuovere misure adeguate per favorire gli investimenti in formazione per l’occupabilità.
NOTE
1) Si veda G. Fajertag, P. Pochet (a cura di), Social Pacts in Europe, European Trade Union Institute, Brussels, 1997.
2) Cfr. Eiro (European Industrial Relations Observatory); European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, Collective bargaining on employment in Europe, EiroObserver, Vol. 1, No. 5, Coparative Supplement, Office for the official publications of the European Communities, Luxembourg, 1997.
3) Si veda European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, Pacts for Employment and Competitiveness. Concepts and Issues, Dublin, 1999. Questo testo che fornisce un quadro concettuale rispetto a questo nuovo argomento è stato redatto dal gurppo di ricerca centrale composto da Keith Sisson, Jacques Freyssinet, Hubert Krieger, Kevin O Kelly, Claus Schnabel e Hartmut Seifert. Durante la prima fase del progetto di ricerca sono stati coinvolti 11 paesi dell Unione europea. Si tratta di: Danimarca, Germania, Spagna, Francia, Irlanda, Italia, Paesi Bassi, Austria, Finlandia, Svezia e Regno Unito. In questa prima fase del progetto sono stati analizzati casi di vari settori.
4) Per l’Italia la ricerca è stata condotta dalla Fondazione Istituto per il Lavoro di Bologna. Sono stati esaminati tre imprese del settore dell’industria, un’impresa del settore dei trasporti e il settore bancario.
5) Si veda P. Marginson, K. Sisson, ‘European Collective Bargaining: A Virtual Prospect?’, Journal of Common Market Studies, Vol. 36, No. 4, Blackwell, Oxford, 1998, pp. 505-528.
6) In una seconda fase del progetto sono stati esaminati in vari paesi patti per l’occupazione e la competitività nei settori dell’energia e del trasporto ferroviario. Nel 2001 la Fondazione Istituto per il Lavoro ha realizzato per il settore dell’energia uno studio di comparazione dei vari casi nazionali di cui in seguito presentiamo una breve sintesi. Nell’ambito della ricerca sono stati esaminati i seguenti casi: Veag (D), Hew (D), E.On (D), Bewag (D), Gew (D), Esb (IRL), PowerGen (UK), National Power (UK), Enel (I), Edf-Gdf (F).
7) Si veda V. Telljohann, ‘The Italian Industrial Relations System and new forms of participation’, in D. Foden, J. Hoffmann & R. Scott (eds.), Globalisation and the Social Contract, ETUI, Brussels, 2001.
8) Si veda K. Sisson e A. M. Artiles, Handling Restructuring. Collective Agreements on Employment and Competitiveness, European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, Dublino, 2000, pp. 120-122.
9) Ibidem, p. 122.
[i] Si veda European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, Pacts for Employment and Competitiveness. Concepts and Issues, Dublin, 1999. Questo testo che fornisce un quadro concettuale rispetto a questo nuovo argomento è stato redatto dal gurppo di ricerca centrale composto da Keith Sisson, Jacques Freyssinet, Hubert Krieger, Kevin O Kelly, Claus Schnabel e Hartmut Seifert. Durante la prima fase del progetto di ricerca sono stati coinvolti 11 paesi dell Unione europea. Si tratta di: Danimarca, Germania, Spagna, Francia, Irlanda, Italia, Paesi Bassi, Austria, Finlandia, Svezia e Regno Unito. In questa prima fase del progetto sono stati analizzati casi di vari settori.
[ii] Si veda P. Marginson, K. Sisson, European Collective Bargaining: A Virtual Prospect? , Journal of Common Market Studies, Vol. 36, No. 4, Blackwell, Oxford, 1998, pp. 505-528.
[iii] In una seconda fase del progetto sono stati esaminati in vari paesi patti per l occupazione e la competitività nei settori dell energia e del trasporto ferroviario. Nel 2001 la Fondazione Istituto per il Lavoro ha realizzato per il settore dell energia uno studio di comparazione dei vari casi nazionali di cui in seguito presentiamo una breve sintesi. Nell ambito della ricerca sono stati esaminati i seguenti casi: VEAG (D), HEW (D), E.ON (D), Bewag (D), GEW (D), ESB (IRL), PowerGen (UK), National Power (UK), Enel (I), EDF-GDF (F).
[iv] Si veda V. Telljohann, The Italian Industrial Relations System and new forms of participation , in D. Foden, J. Hoffmann & R. Scott (eds.), Globalisation and the Social Contract, ETUI, Brussels, 2001.
[v] Si veda K. Sisson e A. M. Artiles, Handling Restructuring. Collective Agreements on Employment and Competitiveness, European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, Dublino, 2000, pp. 120-122.