Paolo Pirani – Segretario Confederale Uil
L’assassinio di Marco Biagi è una tragedia che scuote le coscienze di noi tutti in uno dei momenti più delicati del dibattito politico e sociale nel nostro Paese. Al dolore per la perdita dell’amico e di una delle menti più lucide che il mondo del lavoro ricordi, si aggiunge lo sgomento per la prepotenza con cui questa nuova violenza pensa di potersi affermare e insinuare nel tessuto sociale. Sono rigurgiti di una stagione che credevamo finita per sempre, sono reviviscenze di un passato che pensavamo fosse stato archiviato.
Eppure questa nuova fase del terrorismo nasce in un contesto del tutto diverso da quello in cui quel fenomeno allignò negli anni Settanta e Ottanta. Sono diverse le condizioni storiche, economiche e sociali. Tant’è che, pur simile nel delirio del messaggio, diversi sono anche il linguaggio e lo stile dei documenti.
C’è un intento divulgativo infatti in quel testo diffuso l’indomani del barbaro omicidio di Marco Biagi. Un tentativo di proselitismo e acculturazione di alcune sacche di giovani generazioni a cui esso evidentemente si rivolge che, per ciò stesso, tradisce l’effettiva difficoltà nell’arruolare neofiti in questo nuovo progetto di morte e distruzione.
Oggi la società civile ha fatto un passo avanti, e la memoria storica di vicende che ancora hanno strascichi nelle cronache quotidiane è ormai profondamente radicata nella gente al punto da rendere difficile una trasposizione odierna di tragiche esperienze del passato. Peraltro, non c’è più quell’humus ideologico in cui poteva trovare terreno fertile un disegno sovversivo. E le vittorie che l’intera società civile ha saputo riportare su questo terreno sono un patrimonio e, al tempo stesso, un antidoto per combattere efficacemente quel fenomeno.
E tuttavia, anzi, a maggior ragione, è proprio la condizione indefinita in cui nasce il nuovo terrorismo a rendere preoccupante questa situazione, per le conseguenze che essa può determinare sulla vita di uomini e lavoratori del nostro tempo. E’ paradossale, ma proprio per questi motivi la vigilanza democratica deve essere più alta. A ben vedere, la stessa morte di Biagi è anche l’inquietante testimonianza di un’incapacità dello Stato nel valutare la gravità del fenomeno e, soprattutto, nell’approntare le necessarie tutele a favore di chi può diventare bersaglio di questa nuova sciagurata cultura di morte.
Al di là delle polemiche che a nulla e a nessuno giovano, tutti siamo comunque chiamati, come sempre, a dare il nostro contributo in questa nuova battaglia di civiltà, per la libertà e la democrazia. Da questo punto di vista, il sindacato ha una consolidata e comprovata tradizione nel contrastare il terrorismo e la sua diffusione. Negli anni Settanta fu proprio la fermezza con cui il mondo del lavoro seppe rispondere alla minaccia del terrorismo a impedire il suo radicamento e a consentire di vincere quella che fu una vera e propria guerra dichiarata allo Stato e a tutta la società civile.
Il sindacato ha pagato un tributo altissimo, talvolta anche di sangue, per fermare l’onda montante di un terrorismo che si ammantava di presunta giustizia sociale e che in nome di questa falsa divinità ha mietuto vittime combattendo, in realtà, contro il mondo del lavoro e contro i lavoratori. E’ la storia che sta lì a dimostrare come il sindacato sia stato uno dei bersagli privilegiati di quel fenomeno e come i militanti del movimento sindacale, a tutti i livelli, abbiano dato il loro prezioso e decisivo contributo per arrestare quel processo di arretramento e di barbarie.
Non trova, dunque, alcun fondamento la tesi di presunte collusioni tra sindacato e terrorismo che, oltre ad essere un marchiano falso storico, è un’accusa infangante e inaccettabile. Oggi come allora, il sindacato è in prima linea in questa battaglia in nome della libertà e della democrazia e al fianco di tutte le istituzioni impegnate nel nostro Paese a sconfiggere il terrorismo.
Tutto ciò non può ovviamente significare disimpegno sul fronte delle lotte sociali né soppressione della dialettica democratica tra soggetti portatori di interessi differenti. Il confronto, anche franco ed aspro, e l’eventuale conflitto sociale manifestato nell’ambito delle regole, sono il sale della democrazia e come tali restano insopprimibile patrimonio della nostra civiltà. In un Paese normale, i Governi eletti democraticamente hanno il diritto-dovere di governare. In egual modo, le forze sociali e il sindacato hanno il diritto-dovere di esprimere il proprio dissenso di fronte a decisioni lesive dei diritti e degli interessi dei lavoratori.
Così vivono la democrazia e la libertà; così cresce, si sviluppa e si modernizza il Paese. Questa è la cultura di cui è intriso il sindacato, al punto da esserne esso stesso una delle più alte ed autentiche espressioni. Questo è stato e sarà sempre il nostro impegno.