Gianni Arrigo – Professore di Diritto del Lavoro all’Università di Siena
La delega governativa in materia di mercato del lavoro prevede, all’art. 12, anche norme ‘in materia di arbitrato nelle controversie individuali di lavoro’, le quali introducono modifiche così rilevanti, sia sul piano della tutela individuale che su quello dell’azione sindacale, da meritare qualche nota di commento.
In via preliminare è opportuno ricordare che l’attuale disciplina dell’arbitrato (così come quella della conciliazione) risulta da una normativa di legge, emanata nel 1998 a modifica degli artt. 410 e ss. del codice di procedura civile, la quale detta i principi generali, e da una normativa contrattuale che, per quanto riguarda in particolare l’arbitrato, stabilisce (in base all’art. 412-ter, del cod. proc. civ.), le modalità della richiesta di devoluzione della controversia al collegio arbitrale, la composizione dello stesso, le forme e i modi di espletamento dell’eventuale istruttoria, il termine entro il quale il collegio deve emettere il lodo, nonché i criteri per la liquidazione dei compensi per gli arbitri. I contratti e gli accordi collettivi possono inoltre prevedere l’istituzione di collegi o camere arbitrali stabili, composti e distribuiti sul territorio secondo criteri stabiliti in sede di contrattazione nazionale.
La normativa contrattuale attualmente vigente è quella contenuta negli accordi inteconfederali stipulati (nel 2000 e nel 2001) per il settore pubblico, tra Cgil, Cisl, Uil e Aran e, per il settore privato, fra le tre confederazioni e la Cispel e la Confapi. Si ricorda per inciso che il negoziato tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, partito per primo, si bloccò a mezza strada sul punto dell’ impugnabilità del lodo arbitrale per violazione di norme di legge e contrattuali, richiesta dalle tre confederazioni sindacali e poi accolta – pur con formulazioni diverse – negli altri accordi interconfederali citati.
Ora, a parte alcuni elementi di diversità, gli accordi interconfederali sinora firmati presentano caratteristiche comuni di non secondario rilievo, che vale la pena di ricordare in estrema sintesi. Esse consistono: a) nel carattere facoltativo del giudizio arbitrale e il suo essere fondato su un ampio consenso delle parti sociali; b) nel fatto che esso dia garanzie di rapidità e semplicità procedurale; c) nel fatto che esso garantisca a chi ricorre all’arbitrato un livello di imparzialità e di qualità dei lodi non inferiore a quello delle sentenze del giudice ordinario; d) nell’obbligo dell’arbitro di decidere nel rispetto di norme inderogabili di legge e di contratto collettivo, e quindi la possibilità (prevista in termini più precisi negli accordi con l’Aran) di impugnare il lodo arbitrale per violazione di norme di legge e di contratto collettivo; e) nel carattere sperimentale delle procedure stesse, che mette in evidenza la preoccupazione delle parti stipulanti di procedere in modo cauto e graduale, considerando che occorrono tempi non brevi ad una riforma seria ed impegnativa, come quella in questione, per passare dalla fase della progettazione a quella della realizzazione.
La normativa contenuta negli accordi interconfederali e le prime esperienze applicative hanno confermato la centralità del ruolo della contrattazione collettiva. Le indicazioni delle parti sociali e le prime elaborazioni contrattuali sono state del resto ampiamente valorizzate dalla Commissione per lo studio e la revisione della normativa processuale del lavoro (istituita presso il ministero della Giustizia) nella sua relazione definitiva (7 maggio 2001).
Questo positivo apprezzamento per l’operato delle parti sociali non è stato però condiviso dal Governo. La delega legislativa, infatti, si esprime apertamente a favore dell’arbitrato equitativo (e non di diritto) e, sostanzialmente, a sfavore delle norme contrattuali che consentono l’impugnabilità del lodo per violazione di disposizioni inderogabili di legge e di contratto collettivo (come previsto dagli accordi interconfederali sopra citati).
Entrando più specificatamente nel merito della delega legislativa, si nota, in particolare, come la riforma dell’arbitrato, pur rispettando formalmente il principio costituzionale della non obbligatorietà della soluzione arbitrale (prevedendone la ‘volontarietà’), di fatto è tale da indurre il lavoratore a sottoscrivere clausole compromissorie più favorevoli al datore di lavoro, senza quelle garanzie che possono derivare dall’intervento dei sindacati, ad esempio in ordine alla composizione genuina e davvero ‘terza’ del collegio. In teoria la scelta degli arbitri e le procedure istruttorie previste possono essere rimesse interamente al datore di lavoro, se il lavoratore all’inizio del rapporto accetta (volontariamente, beninteso) tali modalità.
Ora, premesso che non appare molto logico cancellare, senza averla adeguatamente sperimentata, una disciplina contrattuale pazientemente costruita dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori, ci sembrerebbero invece più utili interventi di natura diversa per sostenere e diffondere i ‘circuiti alternativi’ della giustizia del lavoro. Ciò senza trascurare il necessario sostegno alla giustizia del lavoro sul piano amministrativo, processuale e ordinamentale. Per dare maggiore efficacia sul piano sostanziale alla conciliazione e all’arbitrato, considerando che essi costituiscono un valido strumento di deflazione del contenzioso del lavoro, il Governo potrebbe destinare risorse finanziarie ed organizzative al funzionamento delle sedi arbitrali, intervenendo anche a formare e/o riqualificare il personale delle Camere arbitrali (come delle Commissioni di conciliazione), nonché degli esperti che potrebbero eventualmente comporre o integrare la ‘rosa’ dei presidenti dei Collegi arbitrali, con modalità che le organizzazioni sindacali potrebbero definire contrattualmente con le amministrazioni interessate.