Vincenzo Bavaro – dottore di ricerca in diritto del lavoro all’Università di Bari
Quando la legge interviene a modificare, integrare o regolare ex novo un istituto giuridico è sempre difficile stabilire se è più opportuno parlare di riforma, novella, correzione, ecc. dello stato giuridico anteriore. Senza parlare, poi, del significato simbolico che ha la parola “riforma” secondo il quale essa indica un miglioramento delle condizioni preesistenti; orbene, va da sé che il miglioramento non è sempre valutabile come tale da tutti: dipende sovente dal punto di vista. Sta di fatto che lo schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei ministri è stato presentato – almeno secondo gli organi d’informazione – come una profonda riforma degli assetti del collocamento del nostro Paese.
I sette articoli del decreto in esame prevedono disposizioni modificative e correttive del d. lgs. n. 181/2000 [d’ora in poi decreto 181], concernente disposizioni per agevolare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, in attuazione – a sua volta – della delega prevista dall’art. 45, comma 1, della legge n. 144/99. In effetti, tre dei cinque articoli originari del decreto legislativo n. 181 sono sostituiti (l’art. 1 dall’art.1; l’art. 3 dall’art. 4; l’art. 4 dall’art. 5); sono inseriti due nuovi articoli (l’art. 1-bis dall’art. 2; l’art. 4-bis dall’art. 6) nonché modificati i restanti articoli 2 (dall’art. 3) e 5 (dall’art. 7). Senza indugiare oltre, e con i limiti inevitabili derivanti da un approccio per appunti, proverò a descrivere rapidamente i tratti di questa “riforma” che mi sembrano salienti.
Innanzitutto, il “nuovo” [d’ora in poi sottinteso] articolo 1 del decreto 181 appone un altro tassello per la costruzione di un sistema giuridico di orientamento federalista poiché sancisce anche per il sistema del collocamento il principio di sussidiarietà fra potestà legislativa nazionale e regionale. Le disposizioni del decreto 181 stabiliscono soltanto «i principi fondamentali per l’esercizio della potestà legislativa delle Regioni e delle Province autonome di Trento e Bolzano in materia di revisione e razionalizzazione delle procedure di collocamento» (art. 1, comma 1, lett. a). Solo «in caso di accertata inattività che comporti inadempimento agli obblighi derivanti dall’ppartenenza all’Unione europea o pericolo di grave pregiudizio agli interessi nazionali» spetterà in fine al Consiglio dei ministri nominare «un commissario che provvede in via sostitutiva» (art. 1, comma 2).
Atteso che già il d. lgs. n. 469/97 aveva conferito alle Regioni le funzioni e i compiti in materia di collocamento e di politica attiva del lavoro, il nuovo decreto 181 percorre la medesima strada. Tuttavia è necessario essere avvertiti di una differenza che riguarda il contenuto della fonte legislativa: mentre la regionalizzazione operata allora riguardava un’ttività – quale quella di collocamento ovvero di predisposizione di misure di politica attiva del lavoro – che, nello spirito del decentramento, dovrebbero adeguare i mezzi d’intervento alle peculiarità del territorio, il decreto 181 ha ad oggetto non solo (anzi direi, non tanto) attività finalizzate a favorire l’incontro fra domanda e offerta di lavoro ma anche (e soprattutto) la definizione di condizioni soggettive per l’acquisizione o la perdita dello stato di disoccupazione (v. infra). La logica conseguenza è che la regionalizzazione così concepita potrebbe produrre non solo diversità territoriali di mezzi come procedure ma anche di status allorché, come dirò, due Regioni potrebbero prevedere procedure diverse per l’accertamento dello stato di disoccupazione in misura tale da consentire ad uno stesso soggetto di poter essere considerato disoccupato in una Regione e non-disoccupato (anche se non occupato!) in un’altra.
Ciò detto, il decreto 181 opera anche una razionalizzazione dell’ordito normativo. Per esempio, l’art. 4-bis stabilisce che «i datori di lavoro privati e gli enti pubblici economici, procedono all’assunzione diretta di tutti i lavoratori per qualsiasi tipologia di rapporti di lavoro». Questa norma, di per sé non introduttiva di grandi novità, va letta unitamente all’art. 1-bis, comma 3, ove si legge che «sono soppresse le liste di collocamento ordinarie e speciali» ad eccezione di quelle dei lavoratori marittimi, dei lavoratori in mobilità, dei disabili e dei lavoratori extracomunitari. In altre parole, non c’è alcuna distinzione fra il collocamento ordinario, agricolo, dello spettacolo, dei lavoratori domestici e di quelli a domicilio, o degli apprendisti.
Rispetto all’assunzione, il decreto 181 stabilisce che, fatte salve le procedure per l’assunzione dei lavoratori extracomunitari, dei disabili e dei lavoratori italiani da impiegare o trasferire all’estero (art. 4-bis, comma 1), il comma 2 dell’art. 9-bis della legge n. 608/96 è modificato nel senso di stabilire a carico di tutti i datori di lavoro (incluse le P.A.) l’obbligo della comunicazione ai servizi competenti non più solo dell’avvenuta assunzione di lavoratori con contratto di lavoro subordinato ma anche nel caso di instaurazione di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, di un socio lavoratore di cooperativa, ma anche in caso di rapporti (beninteso, non di lavoro) di tirocinio formativo ovvero «ogni altro tipo di esperienza lavorativa ad essi assimilata».
Il decreto 181 ha altresì provveduto ad abrogare formalmente un gran numero di norme che sarebbero risultate incompatibili con la nuova disciplina nell’intento di rendere chiaro nonché razionale il piano di riferimento normativo. Eppure, il legislatore delegato sembra essere incappato, forse, in una svista quando – sempre nell’art. 4-bis – ha previsto che tutti i datori di lavoro «sono tenuti, anche in caso di trasformazione da rapporto di tirocinio e di altra esperienza professionale a rapporto di lavoro subordinato, a comunicare entro dieci giorni al servizio competente» la proroga del termine inizialmente fissato; la trasformazione da tempo determinato a tempo indeterminato e da tempo parziale a tempo pieno; la trasformazione del contratto di apprendistato o del contratto di formazione e lavoro in contratto a tempo indeterminato. In sostanza, si dice che, per esempio, se si trasformasse il rapporto di lavoro part-time in full-time la si dovrebbe comunicare entro 10 giorni ai servizi competenti per territorio; lo stesso dicasi per le altre ipotesi.
La ratio di questa norma si spiega se si tiene presente che la comunicazione deve avvenire anche nel caso di assunzione dello stagista o tirocinante. A prima vista, quest’ultima comunicazione potrebbe apparire superflua, atteso che i servizi competenti devono ricevere le comunicazioni in ogni caso di assunzione, comprese quelle successive ad un periodo di tirocinio. Tuttavia, bene ha fatto a ribadire che anche l’assunzione successiva a queste esperienze deve essere oggetto di comunicazione per evitare la tentazione di considerare implicitamente effettuata la comunicazione riguardante uno stesso lavoratore, prima tirocinante e poi assunto dallo stesso datore di lavoro.
Come dicevo, se questa norma la si accosta alla nuova versione dell’art. 9-bis, comma 2, legge n. 608/96 nonché all’art. 21, legge n. 264/49 – modificata dallo stesso art. 4-bis del nuovo decreto 181 – secondo il quale vanno comunicate tutte le cassazioni dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato nonché quelle in un tempo diverso da quello originariamente previsto, si può facilmente constatare che l’obiettivo è quello di tenere sotto stretto controllo lo stato reale ed effettivo dell’occupazione attraverso il costante e sistematico aggiornamento dell’anagrafe lavorativo. A questo fine l’art. 1-bis, comma 1, ha stabilito che verranno definiti da un decreto ministeriale «il modello di comunicazione, il formato di trasmissione ed il sistema di classificazione dei dati contenuti nella scheda anagrafica e nella scheda professionale dei lavoratori, che costituiscono la base di dati del sistema informativo lavoro» istituito dal decreto 469/97.
Mi sembra di poter dire che il controllo degli andamenti occupazionali e la verifica costante dello stato di disoccupazione rappresentano uno strumento di grande valore strategico per le politiche del lavoro del Governo, peraltro manifestato già con un certo rilievo nel Libro bianco del ministero del Lavoro. Nella stesso senso vanno lette le norme, centrali nell’architettura del decreto, che riguardano lo stato di disoccupazione.
Innanzitutto, viene superata la distinzione fra “inoccupazione” e “disoccupazione”, intendendo per “stato di disoccupazione”, la condizione del soggetto privo di lavoro, che sia immediatamente disponibile allo svolgimento ed alla ricerca di una attività lavorativa secondo modalità definite con i servizi competenti» (art. 1, comma 3, lett. c). Ciò detto, viene lasciata alle Regioni la potestà di stabilire i criteri in base ai quali i servizi competenti devono procedere all’accertamento dello stato di disoccupazione tenendo conto di alcuni criteri, in parte già presenti nel vecchio decreto 181, in parte nuovi: reddito annuale derivante da lavoro «non superiore al reddito minimo personale escluso da imposizione» (al netto delle detrazioni fiscali, circa 5.000 euro); mancata presentazione senza giustificato motivo alla convocazione da parte dei servizi competenti per effettuare colloqui di orientamento o periodi di formazione professionale; rifiuto senza giustificato motivo di una congrua offerta di lavoro, nell’ambito del bacino di competenza dei centri per l’impiego, a tempo pieno ed indeterminato ovvero di lavoro interinale o a termine della durata di almeno otto mesi (o quattro se si tratta di giovani) (art. 4).
Le questioni da evidenziare sono diverse. Innanzitutto, il riferimento alla soglia di reddito non era presente nella precedente formulazione. Si potrebbe obiettare che la soglia dei circa 5.000 euro non sottrae il lavoratore dalla situazione di bisogno tipica della disoccupazione allorché un lavoratore che percepisse un reddito di poco superiore a quella soglia, piuttosto che “occupato”, potrebbe meglio definirsi “mezzo-occupato”. Queste valutazioni, sebbene azionabili su qualsiasi soglia di reddito e perciò comprensibilmente criticabili, puntano il dito su un’altra questione di fondo: si tratta della scelta strategica di puntare contestualmente, da un lato, all’innalzamento degli indici di occupazione, contando qualsiasi lavoro a prescindere dalla reale consistenza di reddito e, dall’altro, all’abbassamento degli indici di disoccupazione. Sul primo aspetto non ci soffermeremo oltre la considerazione che in queste opzioni legislative si suggella la rimozione dell’identificazione del lavoro con il reddito inteso come retribuzione «proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e, in ogni caso, sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa» (art. 36 Cost.). Considerare occupato un lavoratore che percepisce un reddito da lavoro (subordinato o autonomo) di scarsa consistenza indica perlomeno la rimozione simbolica del problema.
Riguardo agli indici di disoccupazione, appare necessario soffermarsi sugli effetti che si potrebbero produrre in conseguenza della riforma. Innanzitutto bisogna ritornare all’abbandono della distinzione fra chi ha perso un lavoro e chi non l’ha mai avuto. Mentre nella vecchia formulazione l’elemento qualificante – oltre alla privazione del lavoro – era soltanto l’essere «alla ricerca» di un lavoro, ora si parla anche di immediata disponibilità allo svolgimento. La precisazione sarebbe irrilevante se riferita alla condizione naturale di chi è in cerca di un lavoro: la disponibilità a lavorare. Vorrei dire che, logicamente, si cerca un lavoro perché si vuole lavorare. Sennonché, se non ci si presenta, senza un giustificato motivo, presso i servizi competenti per essere sottoposti a intervista periodica (art. 3) ovvero se si rifiuta senza ragione una congrua offerta di lavoro, si perde lo status di “disoccupato”.
Orbene, se le cose stanno in questo modo bisognerebbe essere in guardia rispetto a diversi pericoli. Il primo pericolo è quello di costringere un giovane disoccupato ad accettare frequenti interviste periodiche dovendosi sempre presentare presso i servizi competenti. In tal senso, è auspicabile che le Regioni stabiliscano degli intervalli minimi tra un colloquio e l’altro onde evitare che il giovane disoccupato possa subire i colloqui di orientamento come una tortura anziché come uno strumento in suo favore. Al di là delle sue sensazioni, ciò che conta è il pericolo di assenza che determinerebbe l’effetto di cancellazione dall’anagrafe senza una effettiva ragione di lavoro.
Allo stesso modo la questione si intreccia con i soggetti legittimati a svolgere tali attività di verifica. L’art. 1 ha subìto una importante modifica poiché ha previsto che i servizi competenti non sono più esclusivamente i centri per l’impiego ex decreto 469/97 ma anche «altri organismi autorizzati o accreditati a svolgere le previste funzioni». Questo vuol dire che ciascuna regione potrà scegliere quali e quanti organismi possono svolgere le funzioni di verifica dello stato di disoccupazione. Forse, la vera grossa novità del decreto di riforma sta in questa piccola integrazione normativa. Si tratta di una potestà legislativa regionale esercitabile nel senso di autorizzare «altri organismi», senza specificare se pubblici o privati, quindi anche privati. Questo vuol dire che, una regione potrà autorizzare le imprese che svolgono attività di mediazione ex art. 10, decreto 469/97 ovvero le imprese di fornitura di lavoro temporaneo ex legge 196/97 a svolgere la funzione di “servizio competente”.
In realtà, le prime sono già formalmente deputate – ove accreditate – a svolgere «attività di ricerca e selezione del personale e di supporto alla ricollocazione professionale», mentre le seconde svolgono già nei fatti un’attività analoga. Il problema è la certificazione dello stato di disoccupazione. Spetterà alle Regioni stabilire se e come coordinare la gestione dell’anagrafe professionale allorché più soggetti, in concorrenza fra loro, procederanno alla convocazione dei disoccupati per verificare lo stato di disoccupazione con la possibile conseguenza per costoro – se non regolata – di vedersi convocati più volte da diversi soggetti. D’altronde, come impedire che ciò possa accadere se la base dei dati del Sil potrebbe non necessariamente rispondere ai criteri utilizzati per la base dei dati di ciascun servizio competente privato.
In secondo luogo, la possibile apertura ai privati accentua il rilievo di un’altra sottile modifica apportata al decreto. Come detto, lo stato di disoccupazione si può perdere anche «in caso di rifiuto, senza giustificato motivo di una congrua offerta di lavoro… nell’ambito dei bacini… stabiliti dalle Regioni» (art. 4). La vecchia formulazione limitava la distanza dell’ubicazione del luogo di lavoro a 50 km dal domicilio del lavoratore stabilendo, che il rifiuto non avrebbe comportato «la perdita dell’anzianità qualora la proposta di lavoro non sia congrua, secondo criteri determinati dalle commissioni regionali permanenti tripartite…, alla professionalità posseduta dall’interessato».
Oggi le condizioni sono diverse: la distanza potrebbe anche essere superiore a 50 km se il bacino stabilito dalle Regioni avesse una estensione superiore a questa distanza; la sanzione provoca la perdita dello stato di disoccupazione e non dell’anzianità costringendo, in tal caso, il disoccupato ad una nuova registrazione nell’anagrafe professionale; soprattutto è la congruità ad aver subito la più incisiva (almeno, potenzialmente) modifica. Infatti, il decreto riformato ha eliminato il riferimento alla professionalità posseduta dal disoccupato sostituendola con una più generale (generica?) necessità della giustificazione del rifiuto. Si tratta, in sostanza, di stabilire se il rifiuto di una proposta di lavoro valutata dal disoccupato non corrispondente alla propria professionalità possa, oggi, essere ancora legittima (e quindi configurarsi come giustificato motivo) e non comportare la perdita dello stato di disoccupato.
Da questo punto di vista si ravvivano le perplessità rispetto ad una prospettiva che delinea un processo di regionalizzazione degli statuti di professionalità dei lavoratori (qui disoccupati). In ogni caso, prima ancora della omogeneizzazione, si pone l’esigenza di cogliere il senso possibile di questa “innovazione”: ove accreditata, una impresa fornitrice di lavoro temporaneo potrebbe chiamare un giovane laureato in informatica “disoccupato” e proporgli di inviarlo in missione presso un ipermercato con la mansione di addetto al magazzino. Ebbene, il rifiuto del giovane informatico motivato dalla aspirazione a svolgere un ruolo di maggior valorizzazione del proprio sapere potrebbe essere valutato come giustificato nella Regione Veneto poiché nel mercato del lavoro di questa regione gli informatici hanno grande facilità di accesso al lavoro, e come ingiustificato in Campania dove, dato l’alto tasso di disoccupazione giovanile, l’offerta di qualsiasi lavoro potrebbe essere congrua di per sé.
In sintesi, si può dire che sono tre gli effetti più significativi prodotti dal decreto legislativo di riforma del collocamento. Innanzitutto, andrebbe verificata la legittimità sul piano dell’eguaglianza sostanziale di una regionalizzazione che non attiene a tecniche procedurali ma a condizioni soggettive di status. In tal senso, il decreto consente di differenziare procedure e tecniche di accertamento che, per quanto impiantate nei principi generali ivi sanciti, possono istituire condizioni e modalità assai diversificate tali da produrre effetti corrispondentemente diversificati. In secondo luogo, l’ammissibilità dell’accreditamento dei privati in qualità di servizi competenti finisce per attribuire a soggetti privati una funzione – finora tipicamente pubblicistica – di accertamento dello stato di disoccupazione. Questo significa comunque inserire nel circuito del mercato privato una funzione pubblica. Beninteso, niente di diverso dal passaggio dal monopolio alla concorrenza nella funzione del collocamento: anche lì, il passaggio dall’inquadramento come funzione pubblica – e quindi di pertinenza esclusiva dello Stato – all’inquadramento come funzione di interesse pubblico – non necessariamente svolta dallo Stato – non fu altro che una scelta politica. Il processo normativo è il medesimo. La questione, piuttosto, è di valutazione della opportunità di tale passaggio che rimanda ad un dibattito invero lasciato sopire e che non è questa la sede per risvegliare. Terzo ed ultimo effetto, la propensione del sistema di accertamento ad utilizzare tecniche che non escludono – com’è non peregrino pronosticare – la mortificazione della professionalità del disoccupato. La cassazione del riferimento alla professionalità nella determinazione della congruità dell’offerta normativa potrebbe produrre un effetto depressivo della tendenza alla innovazione dei processi produttivi perseguita attraverso la valorizzazione della professionalità dei lavoratori. Anziché innescare il circolo virtuoso della professionalizzazione del lavoro come fattore aggiunto dello sviluppo economico, proprio lì dove l’economia è più depressa, lo scenario ipotizzabile è al contrario. Spetterà alle Regioni la responsabilità ultima; ciò non toglie che le modifiche nell’assetto normativo finiscono sempre per avere conseguenze conformi, almeno in questi casi.
Ma, a prescindere da valutazioni di carattere socio-economico, vi sono ragioni di diritto con cui misurarsi. La giurisprudenza di Cassazione, seppure con riferimento al demansionamento sanzionato dall’art. 2103 c.c., ha più volte ribadito che la tutela della professionalità acquisita riguarda un bene non patrimoniale attinente alla sfera della persona e, perciò, alla dignità sociale ex art. 3 Cost. Un principio di tal fatta non può non avere forza espansiva e portata generale. Certo, stiamo discutendo di disoccupati e non del demansionamento su cui si è espressa quella giurisprudenza; anzi, si potrebbe dire che proprio il rischio della assenza (cioè perdita) di lavoro costituisce una eccezione al divieto di demansionamento. Ma così si utilizzerebbe quella giurisprudenza impropriamente, senza estrapolare il principio di fondo che non può non valere sempre e comunque: la professionalità del lavoratore (occupato o disoccupato) va salvaguardata. Orbene, la domanda è: perché non lasciare che la sanzione a carico di chi rifiuti un lavoro con la motivazione della non congruità rispetto alla propria professionalità non possa continuare ad essere la permanenza stessa nello stato di disoccupazione? Perché aggiungere a questo danno anche la beffa della cancellazione dalle liste dell’anagrafe di disoccupazione?
A meno che non vi sia interesse a snellire quelle liste non solo attraverso la creazione di nuova occupazione ma anche attraverso altre tecniche. Come dovremo interpretare, allora, le notizie ufficiali sulla diminuzione della disoccupazione di 1, 2, 3 punti percentuali? Quanta parte di quei punti sarà derivata da nuovo lavoro e quanto da classificazioni formaliste? Il rischio è quello di nascondere la polvere sotto il tappeto.