Paolo Leon – Professore Ordinario di Economia pubblica presso la Terza Università di Roma – Facoltà di Economia Federico Caffè
Introduzione
Il tema deve essere affrontato sia all’esterno delle imprese, guardando alle relazioni industriali nel complesso, sia all’interno delle imprese. Sarebbe necessario differenziare le imprese per dimensione, per settore di attività, per territorio, mi limiterò ad una trattazione molto parziale di queste differenze. Mi sembra, però, necessario affrontare il tema distinguendo il livello macrosociale e macroeconomico dal livello micro. Anche se per molti interpreti la realtà economica nel suo complesso è la risultante di una semplice somma di situazioni (aziendali, territoriali), in realtà non è così, e in economia il tutto non deriva dalla somma delle parti.
Relazioni industriali e concertazione
Per il livello esterno delle RI, metterei in campo la novità introdotta dal nuovo governo, ovvero la fine della concertazione. Ricordiamo il significato della concertazione: la riduzione del potere di rappresentanza del sindacato confederale, dovuto all’accettazione di contratti più flessibili e alla moderazione salariale, è compensata dalla partecipazione del sindacato alle decisioni riguardanti il mercato del lavoro, ma anche la politica economica, compresa quella di bilancio, e la politica sociale.
Indipendentemente dal fatto se la concertazione sia ancora necessaria o meno, oggi non c’è più: viene sostituita da un ‘dialogo’ che è una metafora per la riassunzione di autorità nel campo del lavoro da parte del Governo; i termini dello scambio tra Governo e sindacato sono dettati dal primo, e il secondo può soltanto variare ai margini quei termini oppure rifiutarli, ricorrendo agli strumenti di lotta. Questa situazione rimette in causa l’intero ordinamento del lavoro, e nessun risultato del passato può considerarsi un’invariante. Se, come nel caso attuale, la politica del lavoro si traduce in una politica dell’offerta, mentre la domanda di lavoro è affidata, nel breve periodo, alle oscillazioni del ciclo economico e, nel lungo periodo, al tasso di crescita dell’economia americana, il potere sindacale si decentra: con la domanda di lavoro oscillante, il sindacato è forte là dove le circostanze sono tali da mantenere in tensione il mercato del lavoro, quale che sia il ciclo o la crescita (Nord-Est, Lombardia, Emilia, Marche). Si possono immaginare due esiti: o il rapporto di forza si sposta a livello aziendale, e salari e condizioni di lavoro vi rifletteranno la forza contrattuale; o si trasferisce a livello territoriale, dove una concertazione locale è ancora possibile. In queste circostanze, la grande azienda in ristrutturazione dovrà negoziare le proprie politiche con il (i) sindacato (i), con una mediazione molto debole, e forse inesistente, da parte del governo centrale.
La situazione sarebbe completamente diversa se le politiche del lavoro si accompagnassero a politiche destinate ad accrescere la domanda effettiva – come peraltro sta avvenendo negli USA. In questo caso, la concertazione diventerebbe imperativa (come sempre, in periodi di boom) e le relazioni industriali centralizzate acquisterebbero rilievo sia per il nuovo governo sia per la parte imprenditoriale. Non si vede all orizzonte, tuttavia, né la volontà di una politica nazionale per la domanda, né, per verità, una politica europea. Così, l’imitazione che si vorrebbe fare del successo USA (nelle relazioni industriali, nella flessibilità del mercato del lavoro, nell’applicazione del progresso tecnico e nella ricerca scientifica) è destinata a non avere alcun senso.
Se dunque le politiche dell’offerta sono destinate a durare, la conseguenza economica per il paese è un’accentuata variabilità al ciclo e uno stimolo all’inflazione. Da un lato, infatti, le imprese saranno spinte a sostituire il turn over con contratti flessibili, e dunque la forza lavoro oscillerà di più con il ciclo di quanto succedeva in passato (e con l’occupazione, oscillano di più i salari, la domanda per consumi, il PIL, i profitti, gli investimenti e di nuovo il PIL). D’altro lato, se la forza aziendale del sindacato è notevole, il salario, il wage drift, lo slittamento delle qualifiche, i premi, ecc., potranno far crescere il costo del lavoro al di sopra dell’aumento della produttività, spingendo le imprese – soprattutto quelle in regime oligo o monopolistico – ad aumentare i prezzi.
Relazioni industriali e l organizzazione aziendale
Queste ultime osservazioni riguardano già le RI all’interno delle imprese. Per approfondire il tema, ecco i punti che mi sembrano più importanti:
– Il ricorso crescente a contratti flessibili, genera un doppio mercato del lavoro all’interno della singola impresa, tra quella parte degli occupati con situazione precaria e quella con situazione stabilizzata (la distinzione è sia contrattuale sia di fatto). L’impresa moderna non può facilmente tollerare un conflitto tra queste due parti, e nemmeno la prevalenza della seconda sulla prima, ciò che comporta sfruttamento da un lato e produttività perduta dall’altro. Un’organizzazione del personale, in queste circostanze, tende evitabilmente a rapportarsi alla parte stabilizzata. Insomma, insiders/outsiders dentro l’impresa!
– La forza relativa della direzione del personale rispetto alle altre parti dell’impresa (la produzione, la vendita, la finanza) aumenta con l’aumentare della conflittualità esterna, ma diminuisce con il crescere della conflittualità interna. Nelle posizioni più critiche per la gestione aziendale, in presenza di un sindacato debole, il personale addetto acquista un proprio peso contrattuale, e ciò può alterare sia il peso delle singole funzioni aziendali sia le strategie aziendali.
– Le relazioni industriali hanno un’influenza importante sul destino dell’impresa, al di là della capacità previsiva delle direzioni (del personale, finanziaria, della produzione). Mi riferisco all’esposizione dell’impresa sul mercato dei capitali e alla concorrenza che vi si manifesta. La tendenza a sostituire i centri di costo con centri di profitto – quale che sia la forma dell’organizzazione aziendale – mette a rischio il criterio di integrazione, e rivela la debolezza (economica e finanziaria) di questa o quella parte dell’impresa, che rischia di essere prima distinta organizzativamente e poi dimessa. Questa vicenda – ben nota – è tanto più probabile quanto più debole è il sindacato e divisa la forza lavoro aziendale: e non c’è sempre una ragione forte per la quale questo processo di downsizing sia effettivamente razionale.
– Le relazioni industriali in azienda dipendono anche dalla politica di welfare del Governo. Se lo Stato sociale universale verrà gradualmente sostituito da un welfare sezionale (per i più poveri) – un evento tanto più probabile quanto meno progressiva sarà l’imposta sui redditi – e lo Stato amplierà l ambito degli ammortizzatori sociali, mentre riduce l’ambito del sistema sanitario, dell istruzione pubblica, della previdenza obbligatoria, l’azienda sarà chiamata a produrre un welfare aziendale sostitutivo di quello generale. Ciò appesantirà i conti aziendali ma, soprattutto, renderà il rapporto tra impresa e lavoratori paternalistico, e si rafforzerà il dissidio tra insiders e outsiders.
– Le piccole imprese non hanno i problemi appena elencati. Possono imitare le aziende maggiori e complicarsi la vita. Normalmente, avranno comportamenti in parte determinati dal mercato e in parte dalla cultura dominante localmente (paternalistica, sindacale o collusiva) più che da strategie vere e proprie. In genere, i loro mercati sono più concorrenziali di quelli delle aziende maggiori. Tuttavia, la semplice esistenza delle piccole spinge la grande e la media impresa a lasciare sempre aperta l’opzione della subfornitura. Anche questo aspetto riduce il potere del sindacato: e, in sua assenza, la prospettiva è di un forte darwinismo sociale.
Conclusione
Mi sembra evidente che le relazioni industriali vadano rifondate.Che lo si possa fare senza il sindacato è una contraddizione in termini: ma va sottolineata anche questa contraddizione. Esistono notevoli spinte, infatti, verso forme di contrattualistica nel mercato del lavoro e nelle politiche sociali fortemente individualistiche: dai contratti individuali al conto personale di previdenza, all’assicurazione privata contro gli infortuni. Bisogna preoccuparsene, perché non si tratterebbe di modernizzazione, ma del suo contrario. Nuove politiche aziendali, e un nuovo rapporto con il territorio e i poteri locali possono contribuire a ridurre la dimensione dei problemi, e a ricostruire forme di concertazione a livello locale, mentre declinano quelle a livello nazionale.