Pier Paolo Baretta – Segretario Confederale Cisl
Nelle polemiche di questi giorni si è teso ad accreditare la tesi, errata, che Cisl e Uil, con la sigla del Patto, avrebbero approvato il Dpef. C’è chi addirittura arriva a sostenere che, a causa di questo infondato presupposto, la Cisl si sarebbe “collocata” col centro destra.
Ma il Patto ed il Dpef non sono la stessa cosa. Ora che i fumi del pregiudizio cominciano a diradarsi, ci si avvia a riconoscerlo. E’ ciò che emerge dall’incontro tra Cigl, Cisl e Uil con l’Ulivo, per quanto sia stato, a mio parere, un incontro sacrificato dall’errore di aver voluto farlo unitariamente. Al contrario, sarebbe stato molto più utile, per tutti, un confronto bilaterale e diretto. Tanto più che nei confronti della Cisl sono stati formulati, da parte dell’Ulivo, attacchi e sospetti che avrebbero meritato un chiarimento senza paraninfi. A maggior ragione se si tiene conto che, precedentemente, il documento stesso della direzione dei DS lo riconosce, diversamente da quanto fa Cofferati, quando critica il Governo per “l’ambiguo intreccio” e sottolinea le “importanti prese di distanza di Cisl …” dal Dpef.
Una volta chiarito questo corto circuito politico la stessa valutazione sul merito del Patto sarà più rilassata ed i meriti dell’intesa cominceranno ad essere riconosciuti ed apprezzati. A cominciare dal che fatto che è stato fermato un gioco a tenaglia che Confindustria e Governo portavano avanti, fondato sulla deregulation sia nei contenuti che nella gestione dei rapporti sociali.
In effetti, dalla stessa lettura dell’accordo si comprende bene che non abbiamo avallato il quadro macroeconomico e di finanza pubblica, del quale si prende, ovviamente, atto. Abbiamo convenuto, questo sì, sul tasso di crescita. Si tratta di una previsione fin troppo ottimistica, lo sappiamo. Ma se non ci appassiona, nella battaglia politica e sindacale, il tanto peggio tanto meglio, è doveroso, come Paese, darci obiettivi ambiziosi che servono a dare stimoli e fiducia all’insieme del sistema economico. Tanto più se vogliamo perseguire la crescita occupazionale prevista nel documento di Lisbona, che comporta per il nostro Paese una lunga rincorsa ed un salto di qualità, che col Patto si sono avviate.
Non abbiamo, invece, condiviso il tasso di inflazione programmata, anzi abbiamo palesemente contestato quell’1,4% fissato dal Governo, considerandolo del tutto inadeguato alla ormai urgente ripresa di una dinamica salariale. Questo vuol dire che le piattaforme autunnali che noi approveremo saranno tarate su richieste che superano l’1,4%? Certamente sì. So bene che la posizione di Confindustria è diversa e che, quindi, l’autunno si presenta complicato. Peraltro il tasso di inflazione programmata è un meccanismo ormai obsoleto rispetto al quadro europeo di stabilità. Siamo, dunque, oltre il 23 luglio? Francamente penso di sì!
La discussione allora va portata, da subito, su una nuova politica dei redditi e su un nuovo modello contrattuale. Su un nuovo modello contrattuale che sia più sbilanciato di oggi verso l’azienda e il territorio, allo scopo di contrattare le nuove condizioni di lavoro e di ridistribuire la produttività. Ridistribuirla ai lavoratori, ovviamente, ma anche agli enti bilaterali se, diversamente da come ironizza Epifani, gli enti bilaterali sono anche le casse edili, i fondi pensione complementari, le forme crescenti di mutualità collettive e negoziate. In questo quadro, il contratto nazionale, che va confermato, deve assicurare il quadro normativo essenziale e definire le regole del gioco.
Il Patto risulta, invece, legato al Dpef solo per le due poste finanziarie che ne derivano: i 700 mln di euro per gli ammortizzatori e almeno 5.5 mld di euro per l’Irpef, a cui si aggiungono i 2 punti di Irpeg (un punto del quale ne ha merito Visco) e i 0,5 mld per l’Irap.
Sul primo aspetto va detto che, per quanto insufficiente, la cifra destinata agli ammortizzatori sblocca il principio che le riforme sociali sono a costo zero, contro il quale ci siamo battuti anche nel finale della scorsa legislatura. Questo risultato apre, al di là del tema specifico, una seria discussione, di principio e pratica, sul rapporto tra risanamento finanziario – non completato – e sostegno al welfare. Per questo ci è sembrato, in questa situazione, un risultato accettabile l’impegno a non ridurre le spese sociali, che andrebbero certamente aumentate, ma anche riequilibrate. Ma questo riequilibrio, lo sappiamo bene, è un punto dolente sia tra i riformisti che tra i liberali. Sulla insufficienza della cifra stanziata, da noi non nascosta, mi auguro una battaglia parlamentare concreta, tesa a migliorare quei punti che non convincono. O ci dobbiamo aspettare un approccio solo negativo? Come quando, con una dose elevata di masochismo, molti deputati dell’opposizione hanno votato contro lo stralcio dell’art. 18. Sicché, se avessero vinto loro, oggi avremmo deliberata la delega così come il Governo l’aveva inizialmente proposta.
Anziché la tanto bistrattata sperimentazione – sulla cui portata cito testualmente Mario Pirani su La Repubblica dell’11 luglio scorso dal titolo “I rischi della sinistra”: “Il Governo è stato costretto a una marcia indietro clamorosa che, purtroppo, la polemica di Cofferati (il “patto scellerato”) gli ha permesso di mascherare. In effetti, della temuta riforma dell’art. 18 non resta praticamente nulla. I punti davvero pericolosi sono stati completamente cancellati…. Si tratta di una modestissima modifica che non intacca alcun diritto acquisito e riguarda un solo comparto produttivo. Va inoltre considerato che attualmente nelle aziende sotto i 16 addetti non vige lo Statuto dei lavoratori, mentre, qualora procedessero a nuove assunzioni, lo Statuto entrerebbe in vigore, pur con la sospensione provvisoria del solo art. 18. Con un ampliamento, quindi, dei diritti sindacali che non dovrebbe essere sottovalutato.”
Sul secondo aspetto, quello fiscale, la nostra critica alla riforma complessiva resta netta. La nostra opinione, oltre che pubblica, è da tempo depositata negli atti parlamentari, espressa in occasione delle audizioni. Ma, a fronte del voto parlamentare favorevole alla riforma, la scelta negoziale che abbiamo fatto è stata quella di utilizzare le contraddizioni obiettive del Governo (impossibilità di applicare integralmente gli effetti fiscali preventivati, visto che solo per l’Irpef ciò avrebbe comportato un minor gettito per 40.000 di vecchie lire). Abbiamo, così, forzato perché si privilegiassero i redditi bassi e si rinviasse il resto della applicazione a tempi …. migliori. Ciò ha consentito di imporre, per ora, una certa progressività, mantenendo aperta la discussione sull’impianto e soprattutto favorire i meno abbienti.
Sul merito del Patto Le cronache giornalistiche o i megacommenti, salvo isolati sforzi di esperti affezionati al tema, come Tiziano Treu, non ritengono degno di rilievo l’aumento della indennità di disoccupazione, il ripristino della autonomia funzionale in caso di trasferimento di ramo di impresa, il ritiro delle norme, da noi contestate, sull’arbitrato per dar posto ad un nuovo negoziato, la riforma del collocamento e l’avvio della riforma dei coordinati continuativi – rispetto ai quali è necessaria un coraggioso intervento che preveda il loro superamento nell’arco di pochi anni. C’è da augurarsi che, almeno, assuma il rilievo che merita l’avvio, dopo le ferie, del tavolo di confronto sullo Statuto dei lavori. Se ne è parlato molto in questi mesi e rappresenta un successo aver ottenuto questo negoziato. Per questo, pur non essendo io personalmente favorevole alla possibilità che la Cgil (o chiunque altro!) possa scegliere fior da fiore, mi auguro che essa venga a questo tavolo e dia il suo apporto negoziale. Sia il centro-destra che il centro-sinistra hanno, sul tema dello Statuto dei lavori, proprie opinioni, legittime. Dobbiamo semplicemente assistere da tifosi al dibattito parlamentare o non è necessario che diciamo, in autonomia, la nostra al tavolo contrattuale?
La Cisl, infine, non ha dato alcun avallo alla manovra sulla sanità. Sulla previdenza, diversamente da quanto previsto nel Dpef, confermiamo il nostro no alla decontribuzione, mentre diciamo il nostro sì a maggiori incentivi che favoriscano la permanenza volontaria al lavoro per periodi più lunghi degli attuali e riteniamo urgente che decollino davvero i fondi pensione, anche col Tfr, ma senza rischiose cartolarizzazioni.
Come si vede, se prevale la buona fede, la verità non fa fatica ad imporsi, sicché la tesi del collateralismo a destra della Cisl, che viene riproposta da molti anche a sinistra, quasi come un auspicio, si rivela clamorosamente infondata. La Cisl è e resterà autonoma sia dal centro-destra, che dalla sinistra. Proprio il bipolarismo politico rende necessario evitare che si affermi un conseguente bipolarismo sociale. I cittadini votano come credono. Ciò vale anche per gli iscritti al sindacato. Ciascuno, indipendentemente da come vota, deve sentirsi a casa sua nel sindacalismo confederale, certamente nella Cisl. Ciò non vuol dire neutralità (si veda, oltre ad alcuni argomenti qui esposti, la nostra posizione sulla immigrazione). Vuol dire autonomia.
Ma tutto ciò riporta ad una considerazione più ampia. Il modello liberista tenta di imporsi attraverso deregolazioni inaccettabili. Ma rischia di insinuarsi nei comportamenti individuali e collettivi perché dà risposte, illusorie ma modernizzatrici, alle insicurezze e alle domande indotte dalla transizione globale. Se si vuole rimettere in moto le coscienze, trasferendo le emozioni e gli interessi dalle illusioni alle speranze, la risposta non può essere l’antagonismo rassicurante, ma altrettanto illusorio, sul quale si attesta purtroppo buona parte della Cgil e parte della sinistra. Bisogna scegliere, al contrario, senza ambiguità, e assumendosene le responsabilità, anche impopolari, ma certamente in sintonia con molta parte di popolo, le fatiche del riformismo, del popolarismo, del solidarismo, della sussidiarietà.
Ma a questo punto l’onestà intellettuale fa affiorare la più difficile e dolorosa delle domande: come si concilia l’unità sindacale (ma, senza ipocrisie, il quesito vale anche per la politica e per schieramenti così eterogenei per programmi e collocazioni ideali e, per l’appunto, opzioni strategiche), con differenze strategiche così profonde? Temo che la risposta, per le urgenze della Storia e le attese della rappresentanza, non ammetterà panniccelli caldi o scorciatoie. Questo è, tra l’altro, uno degli aspetti positivi del dibattito che si è aperto nel mondo politico, anche a seguito del Patto.