Fiorenzo Colombo – segretario generale Femca Cisl Lombardia
Una intensa stagione di dibattiti intorno al ruolo delle rappresentanze sociali nel nostro Paese, accanto alle lacerazioni e strappi prodotti dalle varie organizzazioni che hanno siglato o non siglato il Patto per l’Italia, consegna alle stesse parti sociali la responsabilità di avviare percorsi di verifica, con l’avvicinarsi del decennale del Protocollo sulla politica dei redditi e sul modello contrattuale del luglio 1993.
Come da più parti oramai acquisito, il merito del Protocollo è riconosciuto anche da coloro che a suo tempo espressero scetticismi, opposizioni o indifferenza. Il contenuto ha consentito di instaurare politiche di contenimento dell’inflazione su più fronti (e le relative conseguenze), ha disciplinato il ruolo e le procedure delle parti sociali in ordine alla politica economica e sociale, un nuovo modello contrattuale (che ha funzionato), la diffusione di politiche retributive collettive, correlate all’andamento economico e della produttività delle singole imprese e nei vari luoghi di lavoro.
I comportamenti generati dalle varie parti in gioco (associazioni imprenditoriali e organizzazioni sindacali, direzioni delle imprese e rappresentanze sindacali aziendali) hanno potuto usufruire di un ‘humus’ favorevole all’instaurarsi di modelli di relazioni tra le parti improntate a logiche meno conflittuali, più partecipate, maggiormente fondate sulla legittimità dei vari interlocutori, nel reciproco riconoscimento e con regole comuni.
Tutto ciò è avvenuto in processi certamente non uniformi, anche per le sensibili differenze fra i vari settori produttivi, delle realtà territoriali, dei fattori competitivi nelle varie imprese, del posizionamento culturale e politico dei vari attori sociali. Tuttavia, per il cittadino comune, vale il risultato conseguito: il potere di acquisto delle retribuzioni è stato mantenuto, i rinnovi contrattuali (salvo qualche eccezione) non hanno rappresentato ‘drammi sociali’, imprese e lavoratori hanno percorso strade non laceranti nei processi di cambiamento e di ristrutturazione, seppur con un livello decrescente di risorse pubbliche di sostegno.
Il terzo millennio ci ha consegnato mondi del lavoro sempre più differenti, con imprese sempre più diverse e con figure professionali che scompaiono, accanto ad altre che nascono. I cambiamenti intervenuti, le loro velocità, accanto alle differenze settoriali, territoriali, economiche e professionali dovrebbero tuttavia farci riflettere maggiormente intorno ai ruoli e alle strategie, con grande ancoraggio all’osservazione della realtà.
Lo spunto nasce dal processo di riorganizzazione in corso nei sindacati ed in particolare nella Cisl: infatti, a seguito di decisioni dello scorso anno, si sono realizzati processi di fusione tra federazioni di categorie merceologicamente diverse e, per quanto riguarda chi scrive, ne è nata la Femca (Federazione dell’energia, della moda, della chimica e affini), che raggruppa la rappresentanza di lavoratori iscritti che operano nei settori petroliferi e del gas e acqua, del mondo tessile e delle confezioni di accessori e abbigliamento, della chimica e della farmaceutica, della cosmesi e della detergenza. L’elenco delle nicchie e dei vari segmenti del processo potrebbe continuare con sotto-settori a monte e a valle delle varie filiere produttive e tecnologiche.
Grandi multinazionali oligopolistiche accanto a piccole imprese biotech, grandi aziende manifatturiere accanto a imprese terziste ‘stressate’ da costi del lavoro che arrivano a pesare fino all’85% del fatturato: mondi del lavoro diversissimi, ventagli retributivi molto ampi, approcci culturali e sindacali tradizionali accanto a modelli relazionali più innovativi. La Femca si ritrova a rappresentare lavoratori con problematiche assai differenti.
Parto da questa (apparentemente banale) constatazione per segnalare che il dibattito intorno alla necessità di modificare il modello contrattuale non può prescindere da alcuni parametri di fondo: dall’analisi degli spazi negoziali ad una attenta valutazione sulla situazione economica, dal grado di diffusione della contrattazione decentrata alla verifica di eventuali obiettivi congiunti o su cui esercitare scambi tra le parti.
Partendo dall’assunto, su cui tutti concordano, sul mantenimento del contratto nazionale, quale sistema di regole comuni su alcuni aspetti normativi e su linee strategiche di fondo, gli stessi Ccnl avranno vita ed efficacia a condizione che:
– realizzino livelli retributivi minimi e correlati al mantenimento del potere di acquisto sugli elementi economici negoziati a livello nazionale;
– si instaurino sistemi normativi su poche regole prescrittive e sull’incremento di norme programmatiche a livello delle singole imprese, dove gli attori possano esercitare il loro riconoscimento negoziale;
– si possano realizzare, a livello centrale, sistemi congiunti di erogazione di servizi su previdenza, assistenza sanitaria, formazione professionale e continua, integrazioni di sostegno al reddito in casi di ristrutturazioni o riorganizzazioni;
– si pratichino sedi congiunte di monitoraggio degli andamenti economici e produttivi dei vari settori (gli osservatori);
– adattamenti e riconoscimenti espliciti di diversità e specificità settoriali sul piano degli inquadramenti professionali, dei costi, delle tipologie della prestazione e dell’orario di lavoro;
Grandi contratti nazionali, contenitori di molteplici settori affini ma che mantengono una identità di fondo, possono consentire l’instaurarsi di una pratica e di una dinamicità, con un forte grado di coerenza ai vari livelli, un sistema di responsabilità diffuse tra diversi protagonisti al centro e in periferia.
E’ nei singoli luoghi di lavoro che occorre cogliere le trasformazioni, le conseguenze sulla quantità e qualità dell’occupazione, il riconoscimento del tasso di ricchezza prodotta e da ridistribuire anche ai lavoratori. Quindi è forse opportuno che i vari attori negoziali si dotino di regole in relazione ai mondi cui sono chiamati ad esercitare la rappresentanza: grandi accordi che mettono le braghe al mondo probabilmente non sono utili e funzionali a lavoratori e imprese così diverse.
Fra contrattazione di primo e secondo livello ciascun mondo si dia le proprie regole, onde evitare che chi è debole rimanga debole (senza regole) e chi è più forte determini anche le regole per gli altri. D’altra parte, mi è difficile riconoscere elementi di contiguità sindacale e normativa tra una raffineria ed un calzaturificio, tra un grande sistema produttivo della moda ed un’impresa di ricerca farmacologica.
Perché non trarre ulteriori conseguenze nelle relazioni tra le parti, dotandosi di regole ed equilibri funzionali al reciproco riconoscimento delle convenienze? Ma questo implica anche gli interessi ed il ruolo che i diversi interlocutori giocano, la parte che gli attori recitano sul palcoscenico. E questo è un altro pezzo del discorso che deve far parte di un altro capitolo.