Pier Paolo Baretta – Segretario Confederale Cisl
E’ stato, quello svoltosi venerdì 18 ottobre, presso l’Università di Modena, il primo convegno preparato dall’Adapt dopo la tragica scomparsa di Marco Biagi. E quell’assenza si è avvertita nel corso della giornata. Evocato più volte dai diversi relatori, è stato effettivamente possibile notare che il vuoto lasciato da Biagi non è stato colmato. Non solo emotivamente, ma anche culturalmente.
Sarà stato per i temi scelti: la concertazione e l’articolo 18. Il primo – la concertazione – ha bisogno, più che di analisi o commemorazioni, di un rilancio politico e culturale convinto, in un sistema politico bipolare che necessita di nuovi paradigmi, ma anche di un rinnovato ruolo autonomo delle forze sociali. Il secondo – l’articolo 18 – è praticamente scomparso dall’agenda. Sarà perché il clima ha risentito del fatto che questioni così controverse venivano trattate lo stesso giorno dello sciopero separato della Cgil. Fattostà che si é avvertito un certo riflusso ed un eccessivo buonismo. Non è certo responsabilità dei due coordinatori delle sessioni: Franco Carinci e Mattia Persiani; né del curatore del convegno, Michele Tiraboschi che ha assunto la gravosa eredità di Marco Biagi ed ha assicurato una presenza di relatori di assoluto livello scientifico.
Anche se ha lasciato stupiti, da un lato, la assenza di alcuni autorevoli studiosi quali, a solo titolo di esempio, Guido Baglioni, Mario Napoli o Pietro Ichino e, dall’altro, la scelta di chiamare a discutere serissimi interlocutori come Agostino Megale, Luigi Mariucci e Piergiovanni Alleva, rispettivamente presidente dell’Ires Cgil, il primo e componenti della consulta giuridica della Cgil gli altri due, mentre non è stato invitato alcun istituto di studi della Cisl.
Il che ha dato un taglio molto politicizzato ai lavori, prima ancora dello svolgersi della tavola rotonda finale che a tale scopo era dedicata e che ha assolto pienamente alla sua funzione per merito del confronto diretto tra le tre centrali Confederali (Savino Pezzotta, Luigi Angeletti, Carla Cantone), il che non avveniva più da tempo in questa sede; gli imprenditori privati (Ida Vana, presidente Unionmeccanica-Confapi e Francesco Giacomin di Confartigianato); Italia Lavoro (Natale Forlani, Amministratore delegato) ed il Governo rappresentato dal sottosegretario Maurizio Sacconi. Ribadite le posizioni di merito del Governo sul mercato del lavoro, il Sottosegretario al Welfare ha colto l’occasione della giornata di sciopero per lanciare un messaggio di apertura alla Cgil, augurandosi una reciproca disponibilità. Ma il taglio offerto da Carla Cantone è stato una puntigliosa riaffermazione delle opinioni, ma, soprattutto, della diversità della Cgil. Per Savino Pezzotta si è trattata di una occasione per ripuntualizzare le ragioni della autonomia sindacale e del pluralismo confederale, senza rinunciare al dialogo, ma senza cedere alla tentazione di scorciatoie.
Ma, come si è detto, del clima ne ha risentito l’intera giornata di studi, finendo per assorbire in quest’ottica la lettura, magari non voluta dai relatori, degli ottimi e pur severi contributi scientifici. A partire da Edoardo Ghera, che ha sviluppato una ricostruzione critica del decennio passato in ordine alla concertazione, evidenziandone il progressivo indebolimento. Iniziato, va ricordato, già prima dell’avvento del governo di centro destra, ma subito dopo il patto di Natale. Stefano Liebman ha introdotto, in maniera puntuale e preziosa, il tema della rappresentanza e della necessità della sua misurazione. Ma, è utile precisare, che esistono due criteri di misurazione della rappresentatività già in vigore, il che rende non necessario ricorrere ad una legge, che finirebbe, nel contesto costituzionale vigente, per affermare il primato della maggioranza relativa, più che la misura delle diversità. Il primo criterio oggi disponibile riguarda i voti riportati da ciascuna organizzazione sindacale nelle elezioni delle Rsu, che, val la pena sottolinearlo, prevedono il voto anche dei non iscritti al sindacato ed avvengono, ormai con regolarità, ogni tre anni in tutti i settori del mondo del lavoro. Nessuno mette nella giusta evidenza il fatto che, pur in presenza di uno scontro così aspro tra le Confederazioni, non è mai stato revocato il sistema di rappresentanza affidato alle Rsu. Il secondo criterio è rappresentato dal numero degli iscritti. Si può obiettare che la sua misurazione è oggi opinabile essendo affidata alla autonoma dichiarazione di ciascuna organizzazione. Si può ovviare anche a ciò. Innanzi tutto respingendo le voglie dei radicali e quant’altri di abolire le deleghe sindacali, questione che rischia di incrociarsi pericolosamente con un dibattito favorevole ad una legislazione ad hoc. Ma, successivamente (o preventivamente) definendo con gli Istituti pubblici (Inps, Inpdap, ecc.) una certificazione indipendente.
Nel pomeriggio Raffaele De Luca Tamajo, Luigi Montuschi, Marcello Pedrazzoli e Mario Grandi hanno affrontato i delicati temi dell’articolo 18 e dell’arbitrato, con grande rigore concettuale, ma tutto sommato diffondendo una sensazione di poca fiducia su ciò che è stato fatto e su quanto si potrà fare.
Forse è un segno dei tempi. Lo stesso dibattito politico nazionale, infatti, risente di uno sfilacciamento che preoccupa. Ha colto bene questo aspetto Gian Primo Cella quando ha posto la questione centrale dell’alternativa possibile all’attuale stato di cose. Cella ha sostenuto che, per quanto egli non condividesse il libro bianco, le Confederazioni avrebbero dovuto prenderlo sul serio e aprire un confronto diretto tra le parti sociali sui temi da esso prospettati, chiedendo al governo di non prendere alcuna decisione per almeno un anno. Si tratta di una affermazione molto giusta e condivisibile. Peccato che Cella, accumunando indistintamente tutti gli attori sindacali in un sommario giudizio negativo, dimentichi che quella scelta, da noi, sia pure, forse, troppo timidamente proposta, era, peraltro, quella che davvero voleva Marco Biagi, sia stata impedita dalla stupidaggine congiunta di Governo e Confindustria che hanno voluto porre, a freddo, sul tavolo il superamento dell’articolo 18, facendo perdere un anno al Paese. Inoltre, dopo un braccio di ferro che ha portato al più grande sciopero della storia sindacale (il 16 Aprile), la Cgil si è ulteriormente arroccata nel massimalismo (lo aveva già fatto con la manifestazione del 23 marzo), rifiutandosi di dare uno sbocco negoziale a quella imponente pressione, politicizzando lo scontro e rompendo definitivamente la già precaria unità d’azione, che aveva, però, trovato, proprio nello sciopero generale, una occasione di rilancio.
A conferma di tutto ciò va notato come proprio quel disegno destrutturante contenuto nella proposta di modifica dell’art. 18, che ancora oggi preoccupa Alleva, sia stato depotenziato proprio per merito dell’accordo di Luglio, questione sottovalutata nel convegno, sino al punto che Paolo Tosi afferma che la vera riforma del 18 deve ancora cominciare e sembra al di là da venire. Anche se ci mette, giustamente, in guardia sul fatto che il referendum di Rifondazione comunista, ci obbligherà a cercare una strada per evitare la consultazione. E la strada, come hanno sostenuto, sia pure con percorsi differenti Riccardo del Punta, Pedrazzoli e gli stessi Montuschi e Grandi, sembra essere quella, sul piano teorico, di discutere meglio della diversità tra diritti e tutele e di superare i ritardi culturali e normativi a favore dell’arbitrato e, sul piano pratico, di dare più spazio, alla discrezionalità del giudice il tema di reintegrazione. Il cui superamento, avverte Aris Accornero, sarà la vera fine del fordismo a favore di una rimodulazione di tutele che copra la nuova molteplicità di figure e di lavori.
Il compito del riformista appare, di fronte a queste novità, difficile. Ed è toccato a Carlo Dell’Aringa e a Tiziano Treu manifestarne le logiche. Rispondendo allo schema interessante, ma rigido proposto da Paolo Bosi che, utilizzando l’esempio di pensioni e Welfare, vede contrapposti, nell’attuale congiuntura politica, efficienza a solidarietà, Dall’Aringa ha (alla Biagi direi!) sostenuto l’esigenza, invece, di affermare una cultura di governo che recuperi, in un ottica di efficacia, i gravi gaps che ancora ci dividono dall’Europa, la cui permanenza riduce lo stesso spazio per la solidarietà. All’Europa ha, anche, fatto riferimento Treu; che ha, inoltre, sottolineato l’urgenza di un prospettiva federalista. Una concertazione a geometria variabile, dunque, per rispondere alla crisi del modello concertativo e non rassegnarci ad una sua cronica debolezza.
In definitiva, quel bisogno di modernizzare il sistema di relazioni del lavoro, partito con l’accordo del 23 luglio, seguito dal pacchetto Treu e, più recentemente, dal lavoro prezioso di Marco Biagi e che era stato assunto, sia pure contraddittoriamente, come bandiera dalla nuova maggioranza elettorale, sembra, oggi, ad un anno di distanza dal libro bianco e a due mesi dal Patto per l’Italia, indebolito non soltanto nei contenuti, che meritavano e meritano ancora, confronti, contrapposizioni e modifiche, ma, quel che è peggio, nello spirito riformatore. Mentre, al contrario, il cambiamento reale sta avvenendo in maniera tumultuosa ed aggressiva mettendo in discussione apparenti certezze ideologiche e sicure rappresentanze sociali.
Questa è la preoccupata riflessione che la giornata di Modena ci lascia. Ma proprio da questa considerazione bisogna trarre spunto per ripartire con nuovo impulso intellettuale e politico. Proprio l’esperienza di quest’anno vissuto pericolosamente, sia per la maggioranza politica che per l’opposizione, sia per gli imprenditori che per i sindacati sembra dimostrare, ad là di ogni scetticismo o calcolo, che, chiamiamola come ci pare, solo una buona concertazione consente il governo delle moderne società complesse. Ma solo una buona linea riformista (né liberista, né populista, né antagonista) assicura alla concertazione quel carattere innovatore, in equilibrio tra mercato e società, che è alla base del suo, ancora possibile ed auspicabile, successo.