Raffaele Bonanni – Segretario Confederale Cisl
Un nuovo spettro si aggira nel mondo sindacale della Cgil, quello della bilateralità. Ad evocarlo è stato Eugenio Scalfari che, con un lungo sermone domenicale di metà luglio, mise sull’avviso il gruppo dirigente della Cgil dell’imminente pericolo per il sindacato di trasformarsi in un ente parastatale. Sergio Cofferati accolse il grido di dolore per le sorti del sindacato e lanciò il suo anatema: la bilateralità è un diabolico strumento del Governo per modificare la natura del sindacato.
Queste polemiche animate dal gruppo dirigente centrale, suscitano, in periferia, un coro di volgarità e di insinuazioni per cui la bilateralità costituirebbero il modo per il Governo di foraggiare le organizzazioni sindacali “amiche”. Sarà molto il ciarpame di cui il nuovo gruppo dirigente della Cgil dovrà liberarsi se vuole riprendere un dialogo con le altre organizzazioni sindacali.
Vorrei contribuire, con questa breve riflessione, a sgombrare il campo da alcuni argomenti infondati, sollevati esclusivamente allo scopo di approfondire il solco tra le organizzazioni. Se davvero dobbiamo litigare, facciamolo sulle divergenze strategiche, non su quelle inventate, di comodo.
La prima questione sollevata riguarda la natura degli enti bilaterali. Questi organismi sono e debbono restare frutto della contrattazione collettiva. Sono le parti sociali che attraverso la contrattazione ne determinano la costituzione, i compiti e le risorse che sono chiamati a gestire. Gli enti bilaterali rispondono sempre della loro azione alle parti stipulanti gli accordi. E’ così da oltre 50 anni. Gli enti bilaterali sono chiamati ad agire nei limiti fissati dalle parti sociali, non hanno alcun potere di modificare le relazioni di lavoro definite contrattualmente; le funzioni che essi sono chiamati a svolgere sono quelle loro attribuite dalla contrattazione.
Nella polemica della Cgil si è fatto largo ricorso ad invocare il conflitto di interessi che colpirebbe il sindacato in quanto, con gli enti bilaterali, si trova ad assumere veste di decisore e di esecutore, specie nella realizzazione di progetti di formazione.
La priorità ai fini del finanziamento pubblico, accordato ai piani formativi negoziati tra le parti sociali nell’impresa del territorio, risponde alla necessità che i finanziamenti pubblici europei siano destinati ad interventi che, oltre ad essere funzionali alle esigenze delle imprese, promuovano anche l’occupabilità dei lavoratori. Il vincolo dell’accordo sindacale deve essere letto in questa chiave. I fondi per la formazione vengono assegnati per bando, i progetti vengono valutati da commissioni indipendenti con procedure validate sul piano europeo. Nessun dirigente sindacale è coinvolto nelle procedure di valutazione ma, insieme ai rappresentanti delle imprese, solo negli organismi di indirizzo e di sorveglianza.
Non risulta che gli enti di formazione promossi dalle tre confederazioni ricevano trattamenti di favore, ma concorrono a pari condizioni delle altre imprese presenti sul mercato. Gli enti bilaterali non gestiscono progetti in proprio, ma li affidano a terzi. In questi casi, per evitare commistioni, si preferisce affidare le attività a terzi che operano sul mercato.
Nelle attività connesse alla modernizzazione del sistema formativo gli enti bilaterali stanno gestendo le risorse per la rilevazione dei fabbisogni professionali e formativi. Si tratta di una operazione fondamentale per migliorare la pertinenza dell’offerta formativa e l’azione delle parti sociali non può essere surrogata né dal mercato né da organi dello stato.
La bilateralità ha la responsabilità di indicare al sistema educativo e formativo quale sia la comanda di qualificazione dei lavoratori e delle imprese. Si tratta di convenire sulle condizioni di impiego più favorevoli all’occupabilità dei lavoratori e della competitività delle imprese. Solo le parti sociali sono in grado di dare queste indicazioni. Il recente accordo con le regioni attribuisce agli enti bilaterali la responsabilità di definire gli standard di competenze per la certificazione delle qualifiche da parte delle regioni. Si tratta, come è evidente, di funzioni pubbliche che le istituzioni delegano alle parti sociali in nome del principio di sussidiarietà che è un elemento fondante del patto sociale europeo. La Cisl non intende rinunciare ad assumersi queste responsabilità nella convinzione che in questo modo si difendono interessi e diritti dei lavoratori.
Il Patto per l’Italia ha fatto emergere la possibilità, per le parti sociali, di intervenire nella gestione di alcuni aspetti del mercato del lavoro come, ad esempio, il collocamento, gli ammortizzatori sociali e le politiche di emersione.
Le esperienze realizzate da alcuni enti bilaterali nel sostegno ai lavoratori nelle transizioni da lavoro a lavoro consentono ai lavoratori di trovare quello che Aris Accornero, nel pieno delle polemica sugli enti bilaterali, valutava come un “servizio amico” che il lavoratore avrebbe dovuto aspettarsi dal suo sindacato.
Il Patto per l’Italia ha posto le basi per la riforma degli ammortizzatori sociali. E’ convinzione comune che ad una tutela minima generalizzata da parte dello stato, estesa a tutti i disoccupati, sarà indispensabile aggiungere forme integrative su basi contrattuali e mutualistiche di tutela dei lavoratori in caso di perdita del lavoro. In analogia a quanto avviene per molti settori, la gestione di questi fondi – di origine contrattuale – dovranno essere gestiti dagli enti bilaterali.
Sulle politiche di emersione il rifiuto di un ruolo delle parti sociali da parte della Cgil dipende da errori sul piano dell’analisi della genesi del lavoro nero e sulle politiche che occorre attuare per favorire l’emersione delle imprese e la regolarizzazione del lavoro.
Occorre tener presente che soprattutto nelle zone meridionali il lavoro nero vede un intreccio di interessi tra lavoratore e imprenditore irregolare non risolvibile con il semplice ricorso alla repressione così come la Cgil invoca. La repressione porta alla perdita della fonte di reddito, cancella una opportunità di lavoro, espone il lavoratore ad ulteriori ricatti.
La strada è quella di progetti di emersione, da realizzare con l’assunzione di responsabilità politiche dirette da parte delle organizzazioni imprenditoriali per la promozione di azioni volte al sostegno strutturale delle imprese in emersione in modo da garantirne la sostenibilità nel tempo. Come la Cgil sa bene, occorre rinegoziare le condizioni di impiego, per graduare il raggiungimento delle soglie contrattuali al termine del processo di emersione. Questo è compito del sindacato locale, che è chiamato ad agire nel contesto delle commissioni tripartite.
Dalle polemiche sollevate, sembra quasi che la Cgil preferisca la vecchia soluzione adottata dal Governo di affidare ai sindaci la validazione dei piani di emersione piuttosto che esaltare il ruolo e la responsabilità sociale di imprese e sindacati.
Infine, la questione della certificazione dei rapporti di lavoro così come prefiguarati dal compianto Marco Biagi nel Libro bianco del lavoro. Si tratta di potenziare gli strumenti di tutela individuale del singolo lavoratore che potrà far valere in tutte le sedi le proprie ragioni il cui fondamento giuridico è certificato dalle parti sociali. Questa modalità consentirebbe di porre un freno ai soprusi ed alle prevaricazioni di cui molti lavoratori atipici sono vittime.
Non si comprende quale sia il vulnus alla funzione sindacale che possa derivare da uno sviluppo della bilateralità nel senso auspicato dalla Cisl. Il cambiamento nel gruppo dirigente e la nuova fase politica potranno consentire al gruppo dirigente della Cgil una più pacata e responsabile considerazione delle prospettive della risorsa bilaterale e del servizio che può svolgere per la tutela dei lavoratori.