di Massimo Mascini
Ambrogioni, sta emergendo una nuova figura di dirigente industriale, diversa da quella degli anni passati?
Sì, si sta affermando una nuova “classe” di dirigenti. Molto per effetto del processo di internazionalizzazione delle imprese italiane e soprattutto perché le aziende sono alla ricerca di manager diversi, più disponibili a coinvolgersi nei destini dell’azienda e allo stesso tempo più attenti a nuovi percorsi di carriera. Tanto è vero che sta crescendo il fenomeno della mobilità spontanea, i dirigenti cercano sfide professionali nuove per settori, per ruoli professionali, per territori.
Un fenomeno che interessa le grandi aziende?
Non solo. Certo, questa trasformazione è più visibile nella realtà di grandi imprese che operano sul mercato globale, dove i nostri dirigenti si confrontano e si integrano con colleghi di stampo anglosassone. Ma si avverte anche in tante piccole e medie aziende che hanno di fronte la sfida culturale di espandersi e gestire mercati esteri, con culture diverse.
Dove si realizza più compiutamente questa evoluzione?
Sicuramente nelle aziende del “quarto capitalismo”, fatto di medie imprese evolute, anche in termini di governance, dove il ruolo dell’imprenditore o dell’azionista e quello del manager sono ben distinti, ma nel contempo si integrano e completano a vantaggio dell’impresa.
Comunque è in atto una mutazione dei dirigenti, al di là dell’aziende in cui lavorano?
I manager cambiano e molto. Non è solo il fatto che stiano crescendo i “manager atipici: i cocopro, i pensionati che continuano a lavorare in proprio, i consulenti che hanno una sola committenza. Ma soprattutto cambiano mentalità. E’ un dato di fatto che i manager sono ora più attenti a evitare il rischio di una specializzazione professionale troppo accentuata.
Un rischio reale?
Negli anni 80-90 le aziende hanno spinto troppo sulla specializzazione dei ruoli dirigenziali, di fatto indebolendoli sul piano dei contenuti professionali. E quando questi sono entrati in crisi, per le più disparate ragioni, la conversione professionale di queste persone è stata difficilissima. Adesso le nuove generazioni sono molto attente a svolgere ruoli capaci di dare una visione completa dell’azienda.
Questo cosa comporta in termini sindacali?
Per prima cosa una maggiore sensibilità al tema della manutenzione o dell’accrescimento delle competenze. E poi una più spiccata sensibilità sociale, un’attenzione crescente ai cambiamenti e agli equilibri della società, forse in passato meno necessaria. In questo senso la loro trasformazione è davvero forte. E’ cresciuta la loro percezione di cosa significhi appartenere a un ceto professionale che vuole sentirsi ed essere classe dirigente del paese e che quindi deve sapersi fare carico dei problemi sociali che lo circondano, ponendosi come una sorte di garante nei confronti dei vari stakeholders dell’impresa. E naturalmente questo cambiamento comporta una crescente centralità dei processi di selezione, formazione e incentivazione del management.
Queste trasformazioni non nascono adesso.
No, ma certe loro caratteristiche prima non erano determinanti come invece sono oggi. Adesso l’attenzione all’eticità, alla meritocrazia, alla trasparenza sono elementi che devono essere assolutamente centrali nel momento in cui si valuta una persona ai fini dell’attribuzione a questa di un ruolo manageriale.
Tutto ciò cambia le carte in tavola anche per voi di Federmanager?
Chi rappresenta questi nuovi manager non può sfuggire a una rilettura profonda del proprio modo di fare rappresentanza, sia di tipo sindacale che di tipo sociale. Nel rapporto contrattuale, ma anche nei rapporti con la società in cui si vive, con le istituzioni, con gli altri sindacati. Soprattutto, questa nuova situazione impone un’uscita definitiva da un’azione autoreferenziale come quella in cui si è operato per troppi anni.
Qual è la prima cosa da fare?
Un’azione di legittimazione del ruolo del dirigente. Dobbiamo riuscire a far percepire il manager come una vera risorsa per il paese.
Non lo considerano tale?
No, non è così, certo anche per colpa nostra. Non c’è dubbio che persista una diffusa sottovalutazione del ruolo manageriale, soprattutto in certi ambienti del mondo imprenditoriale, e di quello politico.
Gli imprenditori come vedono il dirigente?
Non sempre gli riconoscono il ruolo e le responsabilità di cui è portatore, l’apporto che garantisce con la sua azione.
E la politica?
I politici in genere tendono a confondere il manager con l’imprenditore. Ma è negativa anche la visione che del dirigente ha il resto del mondo del lavoro. Gli altri sindacati vedono il dirigente solo come la longa manus dell’imprenditore, anche loro fanno confusione, e così facendo il loro giudizio è tutto negativo. A peggiorare un quadro già deteriorato sono venuti poi in questi ultimi tempi i pochi, ma clamorosi casi di superbonus per alcuni altissimi dirigenti, del tutto scollegati dai risultati ottenuti. E questo ha fornito materia per un giudizio sommario e molto negativo della figura del dirigente.
Che non corrisponde alla verità?
Assolutamente no. Noi crediamo che questa visione debba essere profondamente corretta e pensiamo che questo momento di grande trasformazione imposto dalla crisi economica in atto potrebbe essere l’occasione per una rilettura più attenta e originale della figura del dirigente, tanto più alla luce di quelle profonde trasformazioni che sta vivendo. Tenendo anche conto di quanto ha fatto in termini solidaristici, attraverso la leva fiscale e assumendosi per esempio il peso della contribuzione per finanziare l’indennità di mobilità, dai cui benefici è però escluso.
Come si deve procedere per questa rilettura della figura del dirigente?
Basta valutare più correttamente l’impegno quotidiano in migliaia di piccole e medie imprese dove il dirigente è di fatto il più diretto collaboratore dell’imprenditore e con lui si impegna per il successo dell’azienda con vantaggio di tutti.
Questi nuovi dirigenti, portano avanti una domanda di politica sindacale diversa dal passato?
Per capire il nuovo dirigente forse è necessario un po’ di storia, per capire come la figura del dirigente sia cambiata nel tempo. Fino agli anni 70 i dirigenti erano pochissimi, appena 15mila, tutti amministratori delegati o direttori generali. Non c’erano veri contratti nazionali, bastava un pranzo tra Togni, il presidente della Fndai, come si chiamava allora Federmanager, e Angelo Costa, il presidente di Confindustria, per raggiungere un’intesa sugli aggiustamenti retributivi. Poi le cose sono cambiate, il numero dei dirigenti è salito.
Cosa successe?
Molti dirigenti furono nominati dopo che le le Br cominciarono a minacciare gli imprenditori, che di fatto si fecero da parte. Ma soprattutto tante imprese capirono che era conveniente assumere dirigenti, perché la contribuzione Inpdai era più bassa di quella Inps. Ed erano anche gli anni delle partecipazioni statali, dove un posto di dirigente non si negava a nessuno.
Allora c’era il contratto nazionale.
E pesava, era lo strumento principe per regolare la vita dei dirigenti. La crescita retributiva era dettata molto dai livelli gerarchici, che si erano moltiplicati. I dirigenti erano tantissimi, più di 100mila. Poi però la situazione è cambiata.
Per quali motivi?
Per la crisi economica dei primi anni 90, per le ristrutturazioni, per i grandi processi di privatizzazione, per i cambiamenti nell’organizzazione del lavoro. Poi venne la moda dell’organizzazione snella, dell’azienda corta, con pochi livelli gerarchici. I dirigenti sono scesi di numero, non sono più di 82mila, come ora. Ma contestualmente è diminuito il numero delle aziende che avevano in organico almeno un dirigente. E questo certamente non è un dato positivo, perché i dirigenti portano competenze non sempre presenti nell’azienda e quindi aiutano la crescita della competitività.
E’ cambiato il modo di rappresentare i dirigenti?
La domanda di rappresentanza sindacale è cambiata rapidamente e in profondità. Sono sfumati o si sono attenuati gli aspetti più strettamente negoziali in tema di retribuzione e si è rafforzata invece la domanda di tutele sia nei campi classici, come la previdenza e l’assistenza, ma soprattutto in termini di formazione, riorientamento professionale, aiuto alla ricollocazione in caso di perdita del posto di lavoro, sostegno al reddito. Domande queste ultime che interessano i giovani e i dirigenti over 50.
Federmanager risponde a questa diversa richiesta sindacale?
Certo, è dal 2004 che ci muoviamo su questa linea. Oggi siamo in presenza di un’implementazione sostanziale e di miglioramento qualitativo dei servizi che offriamo ai dirigenti. Molto lo facciamo esaltando la bilateralità, cioè in collaborazione con le rappresentanze imprenditoriali. Il superamento del conflitto fine a se stesso, il coinvolgimento e la partecipazione, sono questi i tratti salienti della nostra politica sindacale che risponde così alle attese della categoria. Il sogno sarebbe passare dalla bilateralità alla partnership.
Una sorte di cogestione?
Non gestire assieme le imprese, ma gestire assieme gli strumenti di tutela e di sviluppo di vecchi e nuovi servizi della categoria. E stiamo anche spingendo perché nelle grandi imprese si affermino modelli di relazioni più coinvolgenti e partecipativi tra queste aziende e i gruppi dirigenziali. Perché siamo convinti che questa evoluzione possa favorire quella partecipazione di cui oggi si comincia a parlare.
Volete cambiare anche i criteri di selezione dei dirigenti?
Non li cambiano noi, stanno cambiando da soli. Le appartenenze, le “simpatie”, non possono più essere questi i criteri orientativi. La meritocrazia in tutti i sensi deve rappresentare il punto di riferimento unico. Oggi non è ancora così. E troppo spesso i piani formativi di tante aziende non offrono tematiche di sviluppo manageriali, si limitano ad argomenti teorici e professionali. Aiutano a migliorare le qualità tecniche del dirigente, non aiutano a costruire una visione manageriale di grande respiro. Ma questo vogliono i dirigenti e questo dovranno avere.