In quella sorta di formicaio impazzito che è la politica italiana, il 1° maggio non può avere un carattere meramente celebrativo e retorico, quasi a sancire l’involuzione di quei “corpi intermedi” teorizzati da Montesquieu, funzionali a temperare il potere e il suo eventuale esercizio dispotico, ma deve riscoprire i valori fondativi delle lotte per i diritti sociali per relazionare il lavoro con le nuove sfide dell’innovazione e dell’economia 4.0.
In questo quadro caratterizzato da anomia sociale si deve segnalare la bella iniziativa della Confial, una giovane organizzazione sindacale autonoma di ispirazione riformista e comunitaria in veloce crescita, guidata da un leader di solida esperienza come Benedetto Di Iacovo, che ha promosso una manifestazione e un dibattito per il 1° maggio a Matera, capitale europea della cultura per il 2019, proprio sul tema “cultura e lavoro”.
Matera realtà del nostro Mezzogiorno cancellato dall’agenda politica nazionale e paradigma di un Sud che può risorgere, ma anche come luogo di dibattito politico e culturale per diffondere una nuova coscienza democratica.
Oggi, non si presta sufficiente attenzione, anche nella sinistra tradizionale, al rapporto tra lavoro e cultura, al profilo culturale delle professioni, mentre il tema centrale più che difendere il lavoro è quello di qualificarlo rispetto ai processi di precarizzazione e svalorizzazione prodotti dalla flessibilità senza regole e dall’egemonia neoliberista di questi anni, in un contesto di desertificazione culturale favorita dalla degenerazione dell’uso dei social.
Ed è così, che si cerca di obliterare i valori che stanno alla base del nostro Patto costituzionale, nato, si dica senza infingimenti, anche dalla Resistenza antifascista e dall’incontro e dal dialogo tra culture democratiche diverse: l’aspirazione dossettiana a realizzare i valori cristiani nella modernità, la “democrazia progressiva” figlia dell’adattamento alla vicenda politica italiana della tradizione marxista, il liberalsocialismo, con sullo sfondo una visione liberale intesa crocianamente come “religione della libertà”. E d’altronde, Carlo Cattaneo nel 1847, scrivendo al vice console inglese, affermò che: “la cultura e la felicità dei popoli non dipendono tanto dalli spettacolosi mutamenti della politica, quanto dall’azione perenne di certi principi che si trasmettono inosservati in un ordine inferiore di istituzioni”.
Purtroppo, siamo addirittura al paradosso che in Italia non si difende il rapporto tra sapere e lavoro, perché si ignora la grande pregnanza culturale del lavoro del nostro tempo. E si ignora anche che, nella scuola, sapere e lavoro devono toccarsi molto più di prima, poiché una delle questioni fondamentali in Italia è rappresentata dal quesito su come e su quali basi è possibile ricostruire una trama del sociale in grado di rifondare una soggettività autonoma e solidale da contrapporre all’egemonia della cultura del capitalismo globale di questi anni?
Nell’Italia del ‘900, similmente ad altri paesi industrializzati, il sindacato ha fornito un grande contributo alla crescita culturale e dunque civile e sociale del paese. Ciò è avvenuto grazie all’enorme apporto didattico e pedagogico esercitato all’interno del mondo del lavoro, ma anche attraverso le energie e gli entusiasmi che ha saputo suscitare in quei settori della cultura “alta” che al mondo del lavoro e alle lotte sociali hanno scelto di ispirare il loro impegno e le loro opere. Nella letteratura, nell’arte, nel cinema, nel campo della ricerca e dell’impegno sociale, gli esempi sono innumerevoli. Al contempo i sindacati avevano avvertito l’esigenza di dotarsi di propri centri studi sui problemi del lavoro, con il contributo o di intellettuali direttamente impegnati nell’attività sindacale, è il caso di Bruno Trentin e Vittorio Foa tra gli altri, o “esterni” ma legati alla cultura del lavoro come Gino Giugni, Federico Mancini, Umberto Romagnoli, Tiziano Treu, Gianprimo Cella, Guido Baglioni, Ezio Tarantelli, Piero Craveri, Paolo Leon, solo per citarne alcuni.
Questa capacità di rapporto con la cultura è stato uno dei tratti distintivi del sindacalismo italiano. E forse non ci si rende abbastanza conto che il sindacato ha avuto nella sua storia un gruppo dirigente di altissima levatura culturale e politica, si pensi all’autorevolezza e al prestigio di uomini come Luciano Lama, Pierre Carniti e Giorgio Benvenuto, capace di parlare non il linguaggio di una “corporazione”, di un segmento, ma di rappresentare gli interessi generali del Paese. Ai giorni nostri, in un clima politico mutato, il rischio è che ciascuno sia ricondotto dentro “gabbie” settoriali, specialistiche, con la crisi dello spazio pubblico comune che mette in comunicazione i diversi saperi, le diverse competenze.
C’è una formula che ogni tanto ritorna in tempo di riflusso come quello attuale: a ciascuno il suo mestiere, rappresentazione di un antico ideale conservatore, che assegna a ciascuno la propria parte, il proprio ruolo rigidamente definito e assegnato.
25 anni or sono Umberto Eco, in una delle sue efficaci “Bustine di Minerva”, affermava che il “dovere degli intellettuali è il richiedere (e magari contribuire a formare) una classe politica di ricambio. Si potrebbe aggiungere ai nostri giorni, anche una nuova classe dirigente sindacale.
Maurizio Ballistreri, Professore di Diritto del Lavoro nell’Università di Messina